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“E la chiamano riforma”, di Daniele Checchi

La scuola secondaria italiana ha bisogno di un’opera di razionalizzazione. Il riordino presentato dal ministro Gelmini riesce certamente a garantire un risparmio di spesa pubblica perché prevede una diminuzione dell’organico. Dubbi maggiori si hanno sulla sua efficacia nell’innalzare il livello medio degli apprendimenti o nel ridurne la varianza territoriale. Soprattutto, si riafferma in modo netto la differenziazione tra licei e istituti professionali. Invece di promuovere l’uguaglianza delle opportunità, si opta per la chiusura verso le aspirazioni di ascesa sociale.

La recente riforma degli ordinamenti della scuola secondaria promossa dal ministero dell’Istruzione può essere analizzata seguendo due chiavi di lettura, che vengono riaffermate come principi generali in apertura di ciascun progetto di riordino: “(…) volti ad una maggior razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, tali da conferire efficacia ed efficienza al sistema scolastico”. (1)

L’EFFICIENZA E L’EFFICACIA A SCUOLA

Che il sistema scolastico secondario, sia del primo che del secondo ciclo, abbia bisogno di un’opera di razionalizzazione, è opinione largamente diffusa, essendo a tutt’oggi mancato un riordino della stratificazione di sperimentazioni cumulatesi nel tempo per l’incapacità dei legislatori precedenti di arrivare a una riforma condivisa degli assetti. Il numero degli indirizzi esistenti nella scuola secondaria del secondo ciclo è nettamente sovradimensionato e rappresenta una delle cause del più basso numero di studenti per docente che la caratterizza in rapporto alla media dei paesi Oecd: 11 studenti per docente contro una media di 12,6 degli altri paesi. (2)
Nel linguaggio aziendalistico “razionalizzare l’utilizzo delle risorse umane” suole indicare lo spostamento di persone da mansioni o comparti dove sono meno produttivi a collocazioni dove sono più produttivi. In questo modo si può ottenere maggior produzione a parità di risorse impiegate, oppure la stessa produzione con un minor utilizzo di risorse. In entrambi i casi, si ottiene un abbassamento del costo di produzione per unità di prodotto, che rimane uno degli indicatori principali di efficienza. Che questo sia probabilmente l’imperativo principale che guida il ministero dell’Istruzione lo possiamo desumere, tra l’altro, dal rinvio della bozza di riordino al Dl 25/6/2008 n. 112, convertito in legge 6/8/2008 n.133, meglio noto come “decreto Tremonti”.
E infatti gli interventi principali del riordino sono sostanzialmente due: ridefinizione di un numero massimo di indirizzi per tipologia di scuola: sei per i licei – di cui quello artistico articolato in tre sottoindirizzi – contro gli attuali dieci; undici per gli istituti tecnici contro i quarantatré attuali; sei per gli istituti professionali contro i trentuno attuali. E riduzione dell’orario di insegnamento: nei licei scende a 27 ore settimanali nel primo biennio, per un totale annuo di 891 ore annue, e a 31 ore nel successivo triennio, pari a 1023 ore annue. Per istituti tecnici e istituti professionali l’orario diventa di 32 ore settimanali, pari a 1.056 ore annue: la corrispondente media Oecd a 15 anni nei programmi curriculari oscilla tra 971 ore nei programmi più esigenti e 890 ore per quelli meno esigenti. (3)
Entrambi gli interventi vanno sicuramente nella linea dei risparmi di bilancio della pubblica amministrazione. Ma le riduzioni di organico potranno migliorare anche l’efficacia della spesa, l’altro obiettivo che almeno a parole sembra interessare il ministero dell’Istruzione? Questo dipende da quali effetti si potranno produrre sugli apprendimenti degli studenti.
Sappiamo infatti che per quanto riguarda gli apprendimenti l’Italia soffre di due mali relativamente antichi. Le analisi internazionali ci segnalano che nella nostra scuola secondaria il livello medio degli apprendimenti è basso, sia nelle indagini Timss che Pisa, mentre la varianza territoriale è molto alta, in particolare tra regioni settentrionali e regioni meridionali.
Le stesse indagini internazionali sono però spesso avare di indicazioni chiare sulle ricette che spieghino il successo dei paesi in cima alle graduatorie. Sappiamo che uno degli elementi cruciali è la comparabilità orizzontale degli esiti degli apprendimenti, o attraverso un esame finale gestito centralmente o attraverso lo svolgimento di test periodici (si veda per esempio al riguardo la proposta avanzata al ministro dell’Istruzione. Sappiamo che un secondo elemento è legato al grado di competizione esistente tra le scuole. Più incerti sono invece i risultati relativi alla presenza o assenza del settore privato nell’istruzione. Sappiamo infine che i sistemi scolastici che funzionano meglio sono quelli capaci di attrarre nella professione docente gli studenti migliori che escono per ogni coorte di età. Alla attrattività della professione contribuiscono diversi elementi: la retribuzione in primis, ma anche il tempo di attesa per l’ingresso, le modalità di selezione, la formazione all’ingresso, l’aggiornamento periodico, il carico di lavoro, la verifica periodica e, non meno importante, il prestigio sociale goduto dalla professione (si veda il saggio con Giuseppe Bertola sugli insegnanti). Sappiamo infine che le correlazioni esistenti tra apprendimenti, numerosità degli insegnanti e dimensione media delle classi sono ambigue, perché dipendono da una molteplicità di fattori, quali organizzazioni curriculari, orari di insegnamento, strutture di supporto.

RIBADITA LA TRADIZIONE GENTILIANA

Di tutti questi temi non si trova traccia nei progetti di riordino varati dal Consiglio dei ministri. Viene quindi da domandarsi quali siano le strategie del ministero in merito, e perché abbia scelto proprio questo momento per varare una riforma che, sulla base delle conoscenze esistenti (quanto meno di chi scrive) ha, nel migliore dei casi, la possibilità di non fare danni al livello degli apprendimenti. Stupisce per altro l’assoluta mancanza di dibattito pubblico che invece ha generalmente accompagnato interventi di questo tipo, considerati nel nostro paese qualcosa di simile a un bene pubblico. (4)
A voler peccare di dietrologia, sorge il sospetto che il ministero dell’Istruzione avesse due obiettivi: da un lato, soddisfare l’aspettativa del ministero dell’Economia di riduzione degli organici, intervento che ovviamente non era realizzabile a ordinamenti esistenti. Dall’altro, ribadire la continuità con la tradizione gentiliana di una scuola secondaria che ha nella sua mission la riproduzione della stratificazione sociale.
È illuminante a questo proposito la lettura dell’articolo 2 di ciascun progetto di revisione, relativo all’identità del tipo di scuola. Gli studenti dei licei devono acquisire le capacità critiche necessarie per poter svolgere in autonomia compiti di responsabilità. (5) Gli studenti degli istituti tecnici devono focalizzare le proprie competenze ai fini di una rapida applicabilità nel mondo del lavoro. (6) Così come gli studenti degli istituti professionali devono limitarsi alla dimensione operativa delle proprie conoscenze. (7) Coerentemente con questo assetto, la valutazione e il monitoraggio degli apprendimenti verrà seguito dall’Invalsi per i primi e dall’Isfol per i secondi e i terzi.
Tuttavia la letteratura esistente (8) mette in luce come la stratificazione del sistema scolastico secondario (ovverosia la separazione degli studenti in curricula distinti, sulla base delle capacità e delle aspettative degli studenti e/o delle loro famiglie) tenda a peggiorare il livello degli apprendimenti degli studenti. Anche immaginando che l’assegnazione degli studenti sia basata su principi strettamente meritocratici (ovverosia gli studenti migliori vengano indirizzati verso i licei, gli studenti con capacità intermedie vadano agli istituti tecnici e quelli meno capaci siano orientati verso gli istituti professionali) (9), non è chiaro quali siano gli effetti che si producono sul livello medio degli apprendimenti. Da un lato infatti coloro che finiscono in percorsi professionali ricevono una formazione scolastica che rende molto improbabile la loro prosecuzione a livello terziario. Dall’altro, nella misura in cui l’effetto di interazione con i propri compagni (peer effect) influenzi il processo di apprendimento, gli studenti si troveranno esposti ad ambienti molto diversificati, che tendono ad ampliare le differenze originarie di potenzialità. Coloro che frequentano i licei (che con maggior probabilità sono figli di genitori laureati) si troveranno in compagnia (cooperativamente e/o competitivamente) di studenti con potenzialità analoghe alle loro. E simmetricamente, coloro che frequentano gli istituti professionali, si misureranno con stili di comportamento scolastici molto simili ai propri.
Tanto più precoce è la scelta dell’indirizzo scolastico, tanto più forti si rivelano questi effetti di potenziamento per chi sceglie l’indirizzo accademico e di scoraggiamento per chi sceglie l’indirizzo professionale. Se a questo si aggiunge che la scelta in età precoce viene in massima parte determinata dall’ambiente familiare, ci si rende conto di come la stratificazione del sistema scolastico secondario sia associata nei confronti internazionali ad un minor livello medio di apprendimento, ad una sua maggior dispersione e ad una maggior persistenza intergenerazionale degli effetti dell’ambiente familiare. Per queste ragioni nel corso degli anni ’70 in diversi paesi (Svezia, Finlandia, Gran Bretagna) si avviò un processo di progressiva destratificazione (detracking) che andava sostituendo agli indirizzi differenziali un segmento unitario di formazione scolastica a livello secondario. Gli effetti di tali politiche segnalano un incremento della scolarità media, una riduzione dei divari degli apprendimenti, così come un aumento del grado di partecipazione sociale da parte delle popolazioni coinvolte. In Italia fu approvata dal parlamento nel 2000 una legge di riforma della scuola secondaria che andava nella stessa direzione con l’introduzione di un biennio unificato (la cosiddetta riforma Berlinguer-DeMauro), la cui attuazione fu però bloccata per la mancata emanazione dei decreti attuativi da parte del successivo Ministro Moratti.
Vale allora la pena di domandarsi quale possa essere l’ordinamento scolastico più opportuno per la società italiana corrente. Da un lato i dati sugli apprendimenti segnalano un preoccupante divario nei livelli di apprendimento non solo a livello territoriale, ma anche per tipologia di scuola frequentata. A questo bisognerebbe aggiungere che la società italiana ha espresso negli anni più recenti una domanda crescente di istruzione post-secondaria, anche per effetto delle riforme che si sono realizzate a livello universitario. In questo senso, il riaffermare in modo netto la differenziazione degli indirizzi desta motivi di preoccupazione, in quanto sicuramente non contribuisce a ridurre la varianza degli apprendimenti per gli studenti delle scuole secondarie, e nel contempo rischia di porre un tetto alla espansione della domanda di istruzione terziaria. Quest’ultimo risultato potrebbe essere desiderabile se le politiche di accesso rispettassero un principio di uguaglianza nelle opportunità di accesso. Se invece questa riduzione si scaricasse principalmente sugli studenti frequentanti gli istituti professionali, occorrerebbe preoccuparsi per il rafforzamento delle diseguaglianze intergenerazionali.
In questo senso sembra rintracciarsi un filo rosso tra le proposte di riordino della scuola secondaria e le politiche di riduzione dei finanziamenti all’università, seguendo gli orientamenti espressi dal ministero dell’Economia. Lo stesso ministro dell’Economia aveva infatti apertamente dichiarato in un’intervista alla Padania del 13 agosto 2008 (ribadendolo in un successivo articolo sul Corriere della Sera il 22/8/2008 (10)) che la malattia della scuola italiana fosse da rintracciare nella pretesa egualitarista introdotta con il 1968 (simbolicamente rappresentato dalla canzone “Contessa” di Paolo Pietrangeli dove ci si lamenta del fatto che “anche l’operaio vuole il figlio dottore”).
Il problema di fondo resta quindi quello della diagnosi che si ritenga appropriata per la società italiana. Se si ritiene che essa sia caratterizzata da un eccesso di egualitarismo e da una adeguata fluidità sociale, allora sono auspicabili politiche che rafforzino la differenziazione sociale, ivi incluso il rafforzamento della stratificazione degli indirizzi della scuola secondaria. Se invece si ritiene che i dati suggeriscano una diseguaglianza eccessiva nel nostro paese e/o una elevata immobilità sociale, allora potremmo esprimere una fondata preoccupazione della riforma prevista nella scuola secondaria.

(1)Comma 1 dell’art.1 dello schema di regolamento “revisione dell’assetto ordinamentale e didattico dei licei” – versione del 1/6/2009. Testo identico compare come comma 1 dell’art.1 dello schema di regolamento recante norme concernenti il riordino degli istituti tecnici – versione del 13/5/2009 e dello schema di regolamento recante norme concernenti il riordino degli istituti professionali – versione del 13/5/2009.
(2) Oecd 2008, Education at a glance, indicatore D2.
(3) Oecd 2008, Education at a glance, indicatore D1
(4)Si veda al riguardo la ricostruzione di alcuni momenti topici nel saggio di Adolfo Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Mulino 2008.
(5)“I percorsi liceali forniscono allo studente gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà, affinché egli si ponga, con atteggiamento razionale, creativo, progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi, ed acquisisca conoscenze, abilità e competenze sia adeguate al proseguimento degli studi di ordine superiore, all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, sia coerenti con le capacità e le scelte personali” (art. 2 comma 2 dello schema di regolamento recante “Revisione dell’assetto ordinamentale e didattico dei licei” – versione dell’1/6/2009 – sottolineature mie).
(6) “L’identità degli istituti tecnici si caratterizza per una solida base culturale di carattere scientifico e tecnologico (…) costruita attraverso lo studio, l’approfondimento e l’applicazione di linguaggi e metodologie di carattere generale e specifico ed è espressa da un limitato numero di ampi indirizzi, correlati a settori fondamentali per lo sviluppo economico e produttivo del Paese, con l’obiettivo di far acquisire agli studenti, in relazione all’esercizio di professioni tecniche, i saperi e le competenze necessari per un rapido inserimento nel mondo del lavoro, per l’accesso all’università e all’istruzione e formazione tecnica superiore”. (art. 2 comma 1 dello schema di regolamento recante norme concernenti il riordino degli istituti tecnici – versione del 13/5/2009 – sottolineature mie).
(7) “L’identità degli istituti professionali si caratterizza per una solida base di istruzione generale e tecnico-professionale, che consente agli studenti di sviluppare, in una dimensione operativa, i saperi e le competenze necessari per rispondere alle esigenze formative del settore produttivo di riferimento, considerato nella sua dimensione sistemica.” (art. 2 comma 1 dello schema di regolamento recante norme concernenti il riordino degli istituti professionali – versione del 13/5/2009 – sottolineature mie).
(8) Si vedano per esempio Hanushek, E. e Wößmann, L. (2006), Does Educational Tracking Affect Performance and Inequality?, Economic Journal 116: C63-C76, e anche G.Brunello e D.Checchi 2006 “Does School Tracking Affect Equality of Opportunity? New International Evidence”, IZA Discussion Paper No. 2348/2006 (versione rivista pubblicata in Economic Policy 2007, 52: 781-861). Sugli effetti della stratificazione scoalstica sul grado di civicness dei cittadini si veda van de Werfhorst, H.G. 2007. Vocational Education and Active Citizenship Behavior in Cross-National Perspective. AIAS working paper 2007-62, Amsterdam: University of Amsterdam.
(9) Che questo non sia il caso della scuola italiana, in confronto per esempio con il sistema tedesco (che pure separa gli studenti ad una età ancora più precoce) è studiato nel capitolo “Mobilità intergenerazionale e decisioni scolastiche in Italia” (coautorato con Luca Flabbi) in “Sistema scolastico e disuguaglianza sociale. Scelte individuali e vincoli strutturali”, Mulino 2006 (curato con Gabriele Ballarino).
(10) “A me sembra che quello della scuola italiana si presenti come un mondo fatto al contrario. Un mondo in cui non è la scuola a servire le famiglie, ma il “kombinata buro-scolastico” a servirsi di loro salassandole per sopravvivere esso stesso. Una volta c’era un maestro per tre classi. Adesso ci sono tre mebri per una classe. Era meglio prima o è meglio adesso ? È una kombinata che si nutre con le tasse e che lavora contro le famiglie: più figli hai, più sei costretto a pagare la tassa odiosa e impropria dei libri “nuovi” che ti costano ogni anno centinaia di euro. Forse anche questa, a favore dei “vecchi” voti e contro i “nuovi” libri è una frontiera di quel cambiamento che la gente chiede. Un cambiamento che non è un salto nel vuoto, come nel ’68, ma un ritorno al passato. Al buon senso e alla logica, ai valori e alle tradizioni di un passato che deve e può tornare”.

LaVoce.info, 23 giugno 2009