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“La ferocia e gli Stati”, di Chantal Meloni

Si celebra oggi la giornata mondiale delle vittime della tortura. Una strana e tragica ricorrenza. Secondo Amnesty International la tortura è praticata in 102 paesi del mondo, ma non ce n’è uno che lo ammetta. L’Italia (come in questa pagina spiega Chantal Meloni, ricercatrice dell’università di Milano) ancora non ha nel suo ordinamento una legge che punisca la tortura. È, dal punto di vista dei suoi obblighi internazionali, inadempiente.
Le cause di questa situazione sono complesse. Alcune rimandano alla politica in senso stretto. Quando si parla di tortura, infatti, si parla anche di situazioni che si creano nei paesi democratici quando, per esempio, i pubblici ufficiali abusano del loro potere, e praticano metodi violenti in una questura o in una caserma.
Ma, in ritardo nella legislazione, l’Italia è all’avanguardia nel sostegno e nell’assistenza alle vittime. Perché molte di loro arrivano da noi. Specialmente nei boat people che approdano nelle nostre coste meridionali. Il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) da anni ha avviato il progetto Vi.to. (Vittime della tortura, appunto). A Roma, presso l’azienda ospedaliera San Giovanni-Addolorata, c’è un centro all’avanguardia nel trattamento dei traumi provocati da questa feroce pratica. Diretto dall’internista e psichiatra Massimo Germani, ha già seguito oltre 1200 rifugiati che hanno subito violenze estreme. Un solo dato: il 90 per cento di loro è affetto da gravi disturbi psichici e fisici. Hanno bisogno di cure e di assistenza. Questa giornata (istituita nel 1997 dalle Nazioni Unite) ha lo scopo di aiutare tutti noi a non dimenticarli.

Secondo stime ufficiali la tortura è tuttora praticata nella maggior parte dei paesi del mondo, anche quelli in cui vige la democrazia. Incalcolabile è il numero delle vittime ogni anno. Ma, a 25 anni dalla Convenzione Onu contro la tortura, l’Italia, che vi ha aderito nel 1988, ancora non possiede una norma che punisca espressamente tale crimine. È perciò inadempiente agli obblighi internazionali.
La Convenzione considera «tortura» qualsiasi atto commesso da un pubblico ufficiale con il quale si infliggano intenzionalmente ad una persona dolore e sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere informazioni, di punirla, intimorirla o a fini discriminatori. Gli Stati sono tenuti a dotarsi di specifiche disposizioni per incriminare tali atti come tortura.
Da più di vent’anni i diversi governi italiani hanno messo in piedi commissioni, investito forze e denaro in progetti mai approdati a nulla. Nel corso della XIV legislatura (cioè dal 2001 al 2006) i progetti di legge presentati in Parlamento sono stati ben sette: quattro alla Camera e tre al Senato. Nella precedente legislatura (1996-2001) si era arrivati a un passo dal concludere l’iter parlamentare. Il disegno di legge. 1216, approvato alla Camera il 13 dicembre 2006, introduceva il delitto di tortura nel codice penale (art. 613 bis), punendolo con la reclusione da tre a dodici anni. Quanto alla nozione di tortura, la norma non si discostava dalla definizione della Convenzione; tuttavia la qualifica di pubblico ufficiale rappresentava solo una circostanza aggravante e non un elemento essenziale del delitto. Eliminando tale requisito la nozione stessa di tortura ne risultava modificata: da tortura «di Stato» a tortura «privata», che avrebbe potuto essere commessa da chiunque nei confronti di qualsiasi persona. Si prevedeva inoltre al riguardo un’ipotesi eccezionale di giurisdizione universale dell’Italia. L’effetto era tuttavia paradossale: si sarebbe reso punibile e perseguibile davanti al giudice italiano qualsiasi atto di tortura commesso da chiunque contro qualunque persona in qualsiasi luogo del mondo.
Se tale nozione era forse troppo ampia, rappresentava in ogni caso un passo avanti rispetto a precedenti disegni di legge troppo restrittivi; come quello presentato dalla Lega Nord nell’aprile del 2004, nel quale si era introdotto il requisito che le violenze o le minacce fossero «ripetute» per poter costituire tortura.
Quello di tortura può apparire un concetto ovvio nel senso comune eppure, come dimostra il tormentato iter legislativo italiano, in termini giuridici non è così. Emergono, in particolare, due nozioni: una prima, ove per aversi tortura è necessario che esista un legame con lo Stato nella figura del pubblico ufficiale, tipicamente rappresentato dall’agente di polizia. Una seconda, più ampia, come crimine comune o, per così dire, privato: il marito che tortura la moglie, il genitore che tortura il bambino, etc..
L’ultimo progetto di legge, presentato lo scorso febbraio al Senato, prevedeva l’introduzione di una norma nel codice penale (art. 593 bis) che faceva propria la nozione di tortura collegata alla necessaria qualifica di pubblico ufficiale. La collocazione infelice di tale proposta – presentata nella veste di emendamento al pacchetto sicurezza – ha fatto sì che la discussione sia stata inquinata dalle argomentazioni di chi, dai banchi della maggioranza, ha sostenuto che «costruire un reato proprio per autori che siano appartenenti alle Forze di polizia, in un momento in cui nel nostro paese registriamo la commissione di gravissimi reati, sia non solo ingiusto e improprio, ma gravemente indicativo di una cultura che va contro le Forze di polizia (…)». Peraltro la norma prevedeva espressamente una protezione per le forze dell’ordine stabilendo che «qualora il fatto costituisca oggetto di obbligo legale l’autore non è punibile».
In ogni caso l’emendamento, votato a scrutinio segreto, non è stato approvato: un’altra volta, nessun risultato concreto.
Attualmente in Italia i casi di tortura vengono perseguiti ricorrendo ad incriminazioni per reati comuni, quali le percosse, le lesioni, la violenza privata, le minacce; ipotesi aggravate se commesse da un pubblico ufficiale. Si tratta di reati comunque meno gravi e che in ogni caso non rispecchiano il giusto valore di atti come quelli commessi in occasione del G8 di Genova. In quell’occasione, anche se alcuni dei responsabili delle violenze e umiliazioni commesse sui manifestanti sono stati processati, i reati per cui si è proceduto (quali l’abuso di ufficio!) non hanno potuto rispecchiare davvero la portata dei fatti accaduti.
È chiaro infatti che la tortura non è solo quella fisica. Sono evocative le parole di Antonio Cassese, ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura: «Nella tortura una persona compie volontariamente contro un’altra atti che non solo feriscono quest’ultima nel corpo o nell’anima, ma ne offendono la dignità umana. Nella tortura c’è insomma l’intenzione di umiliare, offendere e degradare l’altro, di ridurlo a cosa».
Il delitto di tortura è una conquista di tutte le democrazie più avanzate ed è il frutto di decenni di battaglie per la tutela dei diritti umani. Persino il Senegal recentemente è stato in grado, su pressione dell’Unione Africana, di cambiare velocemente la propria costituzione ed includere il reato nel proprio ordinamento. Ma il nostro Governo dubita che da vi sia questa necessità. Il sottosegretario all’Interno di recente ha affermato che «nel nostro ordinamento non mancano le norme incriminatrici di comportamenti di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblici servizi lesivi dei diritti delle persone (…)», e che «il Governo ritiene che il Protocollo aggiuntivo alla Convenzione Onu sulla tortura trovi già ampia attuazione nell’ordinamento». Frasi che lasciano di stucco alla luce degli obblighi che l’Italia ha assunto, non solo con la Convenzione Onu, ma anche come membro della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, di quella per la prevenzione della tortura nonché della Corte Penale Internazionale.

L’Unità, 26 giugno 2009