memoria

Ustica, 29 anni. “Bandiere nascoste”, di Giulia Gentile

Mancano solo le bandiere. Quelle dipinte sulle carlinghe degli aerei militari che la sera del 27 giugno 1980 abbatterono un DC9 Itavia in «un’azione che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata» come recitava la sentenza Priore del 1999. Sta tutta qui, per l’avvocato di parte civile Alessandro Gamberini, l’importanza dell’ultima indagine aperta a Roma sulla strage di Ustica, 81 vite partite dall’aeroporto Marconi di Bologna alle 20.08 di ventinove anni fa e finite a oltre tremila metri di profondità nel mare Tirreno. Un mistero che resiste da quasi 30 anni anche se ogni anno perde un pezzo. La verità su quella strage ricorda la tartaruga del famoso paradosso: sempre più vicina ma sempre irraggiungibile. Dodici mesi fa, i Pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio hanno aperto un nuovo fascicolo sulla base delle dichiarazioni del presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga («Furono i nostri servizi segreti che informarono Amato e me che erano stati i francesi, con un aereo della Marina, a lanciare un missile non a impatto, ma a risonanza. Se fosse stato a impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo»). E dalle carte chieste su rogatoria a Parigi potrebbe arrivare, dopo quasi trent’anni, una risposta definitiva sulla nazione d’appartenenza di quei velivoli militari. «L’inchiesta su Ustica si era fermata su alcuni punti acquisiti – ripercorre decenni di indagini giudiziarie e commissioni parlamentari Gamberini -. Lo scenario di guerra in cui avviene l’abbattimento dell’I-TIGI Bologna-Palermo IH780 è composto da aerei militari, alcuni dei quali in ombra radar (che cioè volavano sopra al DC9, e quindi non erano localizzabili). E’ da uno di questi che parte un missile ad esplosione esterna». Mancano però nomi e nazionalità di chi, la sera di quel 27 giugno, lanciò il missile facendo precipitare il volo fra le isole di Ponza e Ustica. Per questo, «l’ultima indagine può avere sviluppi, soprattutto se ci sarà finalmente la collaborazione delle autorità francesi». La verità che, per il legale dei famigliari non è impossibile da ricostruire malgrado il tempo e i tentativi di depistaggio passati. «La ricerca va avanti – sorride mentre cammina senza sosta nell’ombra pomeridiana del suo studio – e seppure in una disillusione ormai trentennale non dispero di vedere presto sviluppi interessanti». Passi avanti che potrebbero arrivare da Oltralpe, vista anche la situazione internazionale più favorevole: «Nel 1980 – ricorda, ad esempio, Gamberini – la Francia non era integrata nella Nato, Ora i rapporti con l’Italia potrebbero essere agevolati anche dalla mediazione della première dame Carla Bruni Sarkozy. Ma nei panni di testimone eccellente, la scorsa estate Cossiga non si era limitato a parlare delle presunte responsabilità dei militari transalpini nella strage. Del resto, di un’intensa attività dei militari francesi nel cielo del Mediterraneo aveva già parlato anche il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo. In un’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta datata 21 Gennaio 1998, aveva raccontato di un incredibile traffico aereo intorno alla base di Solenzara in Corsica (che ospitava vari stormi dell’Armée de l’air) proprio la sera del 27 giugno 1980. Per il presidente emerito della Repubblica «i francesi sapevano che» proprio in quelle ore e in quella fetta di cielo «sarebbe passato l’aereo di Gheddafi. La verità è che Gheddafi si salvò perché il Sismi lo informò quando lui era appena decollato e decise di tornare indietro. I francesi questo lo sapevano, videro un aereo dall’altra parte di quello italiano, e si nascosero dietro per non farsi prendere dai radar». Lo stesso leader libico, qualche settimana fa in visita a Roma, in passato ha più volte affermato di essere lui il vero bersaglio del missile, a detta sua di paternità a stelle e strisce. Ma «l’unico punto accertato di questa versione – chiarisce l’avvocato Gamberini – è che quella sera un aereo “Vip”, che quindi trasportava un capo di Stato, era in volo nella stessa tratta. E che, all’altezza della Sicilia, l’aereo ricevette l’ordine di rientrare». Nel corso della sua inchiesta, l’allora giudice istruttore Rosario Priore era già volato negli Usa a caccia delle nazionalità di quei voli che – come registrato nei dialoghi fra uomini radar agli atti del processo – «razzolavano» sul Tirreno, termine usato per indicare un saliscendi tipico di chi decolla e atterra sulle navi portaerei. Chi lanciò il missile «poteva essere solo statunitense o francese», dichiarò Priore l’anno scorso. «La Nato disse che quella sera c’era un forte movimento aereo, che rendeva possibile la presenza di una portaerei. Anche in questo caso le possibilità non erano molte: o la Clemenceau, che però i francesi dissero che si trovava in porto a Tolone, o l’americana Saratoga, a Napoli».

“Ora chi sa deve dire la verita”, di Daria Bonfietti
Avevo chiesto, in occasione della sua recente visita a Roma, un incontro con Gheddafi. L’incontro non è avvenuto, ma i problemi che volevo porgli restano.
Gheddafi ha sempre affermato che era il suo aereo l’obiettivo dell’attacco che poi colpì il Dc9 Itavia. Un’affermazione di tale gravità, fatta da un capo di Stato, ripetuta in atti ufficiali, avrebbe meritato ben altra attenzione da parte nostra. Invece, in questi anni, non c’è stata una «pressione» adeguata a ottenere finalmente indicazioni precise dalla Libia.
E, purtroppo, neppure da Stati alleati, come la Francia e gli Stati Uniti, c’è stata completa ed esauriente collaborazione. La Francia sostiene che la sua base aerea più al Sud, Solenzara in Corsica, non ha visto quello che succedeva sulla sua verticale; dagli Usa non abbiamo, tra l’altro, notizie dei radar della «Saratoga», o della documentazione sulla quale ha operato la speciale commissione messa all’opera la sera stessa della tragedia nella sede dell’ambasciata a Roma.
Ha scritto il presidente Giorgio Napolitano nel messaggio che ha inviato ai parenti delle vittime: «Sia fatto ogni sforzo perché le indagini recentemente riaperte permettano di dare adeguata e valida risposta». A partire da queste parole deve nascere l’impegno a mettere a disposizione dei giudici ogni elemento, anche le notizie che ho richiamato. Penso che un buon lavoro sia stato fatto, ci sono possibilità che si possa scrivere una pagina definitiva sulla vicenda, ma ora sul tavolo vanno messe tutte le conoscenza, tutte quelle che sono a disposizione, oggettivamente, anche di altri Stati.

Intervista ad Ascanio Celestini: «La memoria vive in ognuno di noi», di Chiara Affronte
Ascanio Celestini, attore e drammaturgo romano, l’8 agosto sarà a Bologna con «Radio Clandestina» sull’eccidio delle Fosse Ardeatine, e chiuderà gli appuntamenti dedicati alla strage di Ustica in programma nel giardino antistante il Museo della memoria dove si trova il relitto del Dc9, immerso nell’installazione di Christian Boltanski.
Ha mai pensato a uno spettacolo su Ustica?
«Io mi sono dedicato al tema del lavoro e quella storia non l’ho mai incrociata. In ogni caso penso, in generale, che sia importante ricordare il passato quando serve per il presente. Se ricordare i campi di concentramento mi serve a capire meglio i rapporti Italia-Libia quel ricordo ha un senso».
Questo fa il teatro civile?
«Un teatrante quando è in un luogo pubblico fa politica anche se racconta barzellette, come fa il premier che fa politica raccontandole invece di rispondere ai giornalisti. Il teatro non può essere un tg di vicende nazionali, ripulire la coscienza di una nazione che se l’è sporcata volutamente. Possiamo mettere insieme delle persone e raccontare le loro storie».
Boltanski ha rappresentato le vittime con i loro probabili discorsi di qualche istante prima. Tra i familiari c’è chi dice che i processi si dovrebbero fare lì per scuotere chi mente…
«In questi anni sulla memoria abbiamo costruito monumenti, e questo a volte è pericoloso. La memoria non è collettiva, è individuale: l’individuo ricorda. Nei luoghi della memoria, le giornate della memoria e – per par condicio – anche quella del ricordo, noi prendiamo la nostra memoria, la tiriamo fuori da noi e ci facciamo un monumento. Poi una volta all’anno ci si portano le corone e c’è la banda che suona. Basta pensare che la festa del 2 giungo viene celebrata coi cannoni. Il monumento è spesso lontano dall’individuo, è fascista perché è un’imposizione. Se la memoria deve diventare monumento, allora preferisco che le persone dimentichino».

da L’Unità