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“Se l’affitto è tutto nero”, di Paola Natalicchio

Camera cercasi lavoratrice 30enne. Zona centro o semicentro. Massima serietà. No agenzie». L’annuncio viene pubblicato un venerdì qualsiasi e il telefonino inizia a squillare già dalla prima mattina. Io sono una ricercatrice precaria dell’università: 1200 euro al mese di assegno mensile, due anni di contratto e poi chissà. Loro sono i padroni di casa a cui si è liberata una stanza. Devono rimpiazzare qualcuno, fare cassa. Prendo, in poche ore, cinque appuntamenti. Li distribuisco in un sabato bollente di fine maggio. Si disegna, lentamente, un mondo.
Comincio dal sontuoso quartiere dell’Eur. Davanti al laghetto, mi tende la mano Rossella, una signora sulla cinquantina, timida e nervosa. Stringe la sua borsa firmata sotto il braccio, mi fa strada con prudenza nel suo condominio: elegante, con un grande giardino. Ci passa accanto il portiere e lei abbassa la testa. Ci metto un po’ a capire che succede. «Glie lo dico subito: io le faccio vedere una stanza, ma non potrei. Insomma, affitto a nero». Parla sottovoce, si vergogna. Saliamo una rampa di scale in un silenzio surreale, come due ladre. Poi lei entra nella porta accanto. La lascia aperta per qualche secondo. Si scorge un appartamento enorme: soggiorno a perdita d’occhio, mobili di buona fattura. Esce con in mano un mazzo di chiavi. «In pratica saremo vicine, ma lei avrà un ingresso indipendente. È importante, per la sua autonomia». Finiamo dentro una camera buia, minimale e un po’ dimessa. Un corridoio stretto, un bagno in disordine, un letto a una piazza davanti a una finestra senza balcone, un piccolo frigo marrone, un armadio. Non vedo la cucina. Chiedo spiegazioni. «Ho due figli, ci teniamo alla nostra privacy e la nostra cucina non si può usare. Però lei si può organizzare: può portare un fornelletto da campeggio, oppure un forno a microonde, o il “bimbi”. Ha presente il robot? Con quello, al giorno d’oggi, si prepara ogni ricetta». Annuisco senza convinzione. Vengo a sapere che per questo accampamento di fortuna chiede 550 euro al mese. Più spese. La metà del mio stipendio. In contanti e sottobanco. «Il contratto io non glie lo posso proprio fare. Dall’altra parte sono in affitto. Ma mi sono separata e questa casa costa. Ha visto il portiere? Lo vede il giardino? Sono tutti lussi che uno si deve poter permettere. Allora mi sono organizzata così». Scivolo via con una strana angoscia addosso. Per un momento sono dispiaciuta per lei.
La macchina sfreccia sul raccordo anulare e, senza navigatore, la casa della signora Claudia è difficile da scovare. Siamo in zona Anagnina, qualche chilometro oltre l’Ikea, a due passi dal campus della Ericsson. La signora mi aveva contattata via sms: «Affitto stanza elegante 500 euro più spese». Ora mi accoglie sulla porta in tuta da ginnastica, rincorsa da un cane che sembra un cartone animato. Sono travolta dal suo calore meridionale. Mi accorgo subito, anche qui, di violare un segreto. «Vieni, entra, passiamo dal giardino. Qui c’è l’orto, guarda. Alla tua stanza si entra di lato». La “mia stanza”, effettivamente, è un incanto. Fa parte di un bilocale che Claudia ha ricavato facendo dividere la sua casa originaria, dove lei adesso abita con il figlio ventenne. «Sono rimasta vedova una decina d’anni fa, allora dovevo trovare un modo per andare avanti. Ho diviso la casa in due e ho ricavato nell’altro spazio due stanze. In una, se vorrai, ci vai tu. Nell’altra c’è una coppia di ragazzi di 25 anni. Lavoratori, puliti». C’è un bagno, c’è una cucina, c’è addirittura il camino. Il giardino con il tavolo e l’ombrellone. C’è il posto auto: è l’unica casa che vedrò in cui la mia macchina non è un problema. Non siamo a Roma, però, ma almeno a un’ora da dove lavoro. E non ci sono mezzi pubblici prima di qualche chilometro. A parte un autobus che sembra passare a singhiozzo. Non c’è il contratto, poi. Neanche qui. «Mi sono sempre regolata così, sulla fiducia. Sullo sguardo». Anche stavolta esco turbata. Divisa tra rabbia e comprensione. Turbata dall’empatia che provo per questa donna che affitta a nero e a prezzi stellari una stanza praticamente fuori città.
Bevo un caffè, lascio la campagna e scappo a vedere altre due stanze in centro. Una è a viale Libia. Zona università e, in teoria, a 10 minuti da dove lavoro. Dovrei abitare con cinque lavoratrici, tutte donne, in un appartamento enorme e fatiscente. La padrona di casa vive al piano di sopra. Non mi conosce, ma continua a chiamarmi con un diminutivo. «Per me siete come figlie, una volta al mese siamo abituate tutte ad andare a mangiare la pizza. A questa cosa, sia chiaro, ci tengo». Niente contratto («a che serve?»), due mesi di anticipo, 450 euro più spese. L’altra camera è in zona San Pietro. Me la mostra un single 40enne: ha ereditato l’appartamento da suo nonno, lui vivrebbe con me, ma non c’è mai, perché i suoi abitano fuori Roma. Affitta la stanza per coprire le spese di gestione. Bollette in comune, più 400 euro al mese. «Il contratto non serve, me li metti in una busta», chiarisce.
Finisco il mio giro dal signor Cesare in zona Capannelle. Di fronte all’ippodromo e alla stazione dei treni. «Ora sono in pensione, ma ero un bancario e ho sempre lavorato in centro. Da qui a Termini sono 10 minuti». È lui a chiedermi la cifra più bassa: 350 euro più spese. Peccato che la stanza sia un loculo e che l’appartamento va diviso con altre tre persone, con un solo bagno in comune. Una cucina appena abitabile, un corridoio stretto, niente soggiorno. Sul contratto, fa una proposta opaca: «Si può fare una scrittura privata, ma speriamo di non doverla usare mai». La filosofia di Cesare è quella di tanti. «Vivo al piano di sopra, ho comprato questa casa per mia figlia. Se un domani si sposa, siamo vicini. Quando mi servirà la casa, io vi avviso e voi ve ne andate. Due, tre mesi ve li do. Così vi trovate un’altra sistemazione. Oppure vi arrangiate. Tanto siete giovani, no?». Esco stordita. Il telefono continua a ricevere telefonate e sms per giorni. «Cerca ancora quella stanza?». No, grazie. Non la cerco più. Meglio restare ancora qualche anno da mamma e papà.

L’Unità, 30 giugno 2009