economia, lavoro

Antonio, a casa dopo 20 anni di posto fisso. “Ho perso il futuro senza avere colpe”, di Roberto Mania

La nuova ondata di disoccupati non è più quella dei precari, ora tocca ai figli del baby boom. Stanno al nord, nelle fasce ancora industriali, nelle province del “voto calloso” alla Lega. Siamo solo all’inizio: la disoccupazione si muove in ritardo rispetto al Pil.

Cinisello Balsamo (Milano) – «Mi chiamo Antonio, ho quarantadue anni, vivo a Cinisello Balsamo, sono disoccupato». Disoccupato, senza lavoro, senza più fabbrica. A casa, dopo vent’anni di contratto a tempo indeterminato, posto fisso e nessuna precarietà. La storia di Antonio Narciso da Bitonto, provincia di Bari, è la storia di una nuova generazione di lavoratori a rischio, né vecchi né giovani. Lavoratori garantiti fino al crollo della Lehman Brothers.

Ora sono entrati nelle tabelle dei disoccupati dell’Istat e di Eurostat, e hanno cambiato prospettiva. La loro vicenda sta diventando complementare al racconto di Aldo Nove nel suo “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”. Quello era il romanzo dei lavoratori flessibili, malpagati, senza futuro. Una generazione diventata matura nell’incertezza e che ora sta passando direttamente dalla precarietà alla disoccupazione. Questo, invece, è l’inizio della storia di una nuova ondata di disoccupati, figli degli anni del baby boom. Che stanno al nord, nella fasce ancora industriali, nelle grandi e medie imprese, nelle province del “voto calloso” conquistato, salvo con rare eccezioni, dalla Lega, nelle aree fortemente sindacalizzate. Sono i disoccupati che, appunto, cominciano ad apparire nei radar delle indagini statistiche. Con le contraddizioni e i bizantinismi del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Perché molti – proprio come Antonio – sono in cassa integrazione straordinaria a zero ore. Formalmente avrebbero un posto di lavoro. Eppure la fabbrica ha chiuso i battenti, trasferito le produzioni in un altro posto, incentivato con un bonus l’esodo dei suoi operai. Per ora sono ancora disoccupati di serie A, ma la zona retrocessione, anche per loro, è solo a un passo. Perché, certo, gli oltre 200 mila nuovi disoccupati del primo trimestre dell’anno sono soprattutto precari ai quali non è stato rinnovato il contratto, ma poi c’è anche un pezzo di lavoro industriale che si sta frantumando. Sempre nei primi tre mesi del 2009 l’occupazione è calata dell’1,6 per cento nell’industria, dello 0,4 per cento nelle regioni del nord. E il terziario non assorbe più questa emorragia. Probabilmente siamo solo all’inizio perché l’andamento della disoccupazione si muove in ritardo rispetto al Pil. Vale la pena ricordare che la recessione dei primi anni Novanta registrò un calo del Pil intorno all’1,2 per cento, con un crollo dell’occupazione vicino al 5 per cento. Questa recessione è quattro/cinque volte più grave.

Da Milano a Cinisello Balsamo, passando per Sesto San Giovanni, i capannoni industriali non ci sono più da tempo. Breda, Falck, Magneti Marelli, Pirelli sono nomi che appartengono a un’altra epoca milanese. E la crisi sta falcidiando gli ultimi bastioni industriali. Secondo le elaborazioni della Fiom, la Lombardia si è accaparrata quasi il 26 per cento del totale delle ore di cassa integrazione tra i metalmeccanici. A Milano oltre 20 mila lavoratori sono in cassa integrazione. Le domande sono cresciute del 200 per cento. In autunno la Confapi prevede la chiusura del 10 per cento delle piccole imprese milanesi e l’avvio della mobilità per 8-10 mila lavoratori.

Antonio Narciso abita da sempre a Cinisello anche se la sua azienda, la “Carlo Colombo”, stabilimento storico nei semilavorati di rame molto presente sui mercati europei e con clienti importati da Enel a Pirelli, sta (va) ad Agrate Brianza. Il suo ultimo giorno di lavoro è stato il 22 dicembre del 2008. Ma già da luglio di un anno fa si era capito che le cose si stavano mettendo male: crollo della domanda e del fatturato ( – 30/40 per cento), aumento dei costi. Terapia: spostare tutte le produzioni, macchinari compresi, nell’altro impianto di Pizzighettone, provincia di Cremona. E cassa integrazione straordinaria per gli ottanta operai. Fine dei turni per il ciclo continuo. Quei turni di sabato, domenica, di notte che davano reddito, oltre la media della categoria, fino a 1.700 e passa euro al mese, per un quinto livello. La cigs arriva a 870 euro al mese anche se l’incentivo all’uscita non è male: 24 mila euro distribuiti in dodici mesi. Ma finiranno. E poi?

Alla “Carlo Colombo” aveva lavorato anche il padre di Antonio Narciso per 35 anni, dall’arrivo a Milano, fino alla pensione. Lì anche diversi suoi parenti. Storie di immigrazione di un’altra Italia. «Per questo – dice – è stato più difficile accettare l’idea che fosse finita. Ricominciare non è bello». Ecco, ricominciare. Perché l’Italia, il paese della staticità sociale tanto che Antonio fa l’operaio come il padre, non è adatto alle ripartenze. «Ai primi segnali di crisi – racconta – mi sono iscritto alle agenzie private per il collocamento. Ho inviato il curriculum qua e là, da settembre a gennaio. Poi mi è passata la voglia. Sono andato a parlare con i padroni con cui avevo già lavorato. La risposta è sempre stata la stessa: “Siamo messi male anche noi. Dobbiamo mandare via la gente”. E nessuno mi ha mai chiamato». E Antonio, ancora quattro anni di mutuo da pagare, una compagna disoccupata («fa qualche ora») con un figlio a carico, ha capito che il suo futuro non sarà più tra le tute blu. La trafilatura del rame non sarà più il suo lavoro. Si cambia. Forse. Antonio si è iscritto a un corso di formazione della Regione per diventare infermiere nelle case di cura che assistono gli anziani. Servizi alla persona contro la manifattura. «Ci sarà sempre meno lavoro nell’industria», sostiene. Da metalmeccanico, l’élite della classe operaia, all’informalità delle cure agli anziani. Senza sindacato e con meno tutele. Antonio l’ha messo in conto. «Si ricomincia dal passato», dice. Tra i suoi colleghi è l’unico che si è iscritto a un corso. Gli altri si comportano come i classici cassintegrati: aspettano, illusi, che qualcosa accada. Scommettono sul fatto che chi assume un cassintegrato paga meno perché ha lo sconto fiscale e contributivo. Già, ma chi assume? Hanno fatto di recente un’assemblea alla Cgil di Monza per fare il punto, e nessun’altro sta cercando così un nuovo posto. Non vanno più alla “Carlo Colombo”. «Ci fa incazzare. Era la nostra seconda casa. Paghiamo una crisi di cui non abbiamo responsabilità». E questa diventa anche la chiave che pare sollevare i nuovi disoccupati. Essere in tanti fa perdere meno l’identità sociale. «Vergognarmi? E perché? Non sono certo l’unico, qui. E non è colpa nostra. Mi preoccupa l’età perché non sono più un giovane».

Antonio è tornato a scuola. Tutti i giorni dalle 18 alle 22, fino al prossimo mese di aprile. Previsti anche i tirocini nelle cliniche. In classe sono quasi una trentina. E la metà è composta da lavoratori stranieri, rumeni soprattutto.

«È la prima volta che sto a casa. Ho sempre fatto qualcosa. Faccio il casalingo, i mestieri, stiro, lavo, la spesa». È la disoccupazione. «Parola che non si può pronunciare a cuor leggero – hanno scritto una ventina di anni fa Aris Accornero e Fabrizio Carmignani, nel loro “I paradossi della disoccupazione” – . Si deve anzi pronunciare con la dovuta computazione: è un male sociale vergognoso soprattutto per le società sviluppate».
(la Repubblica, venerdì 3 luglio 2009)

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