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“La laurea è una cosa per donne”, di Richard Newbury

I ragazzi a scuola non vanno bene come le ragazze. Si sa. Quello che non si sa è che questo andazzo continua anche all’università». Lo scrive Bahram Bekhradnia, direttore dell’Higher Education Policy Institute di Oxford, che ha appena pubblicato un rapporto basato sui test di rendimento. «Qualcuno», osserva, «pensa che sia un fatto irrilevante. A una recente conferenza sull’impatto del femminismo sull’istruzione superiore, un accademico ha detto che gli scarsi risultati dei ragazzi “sono visti come una minaccia alla mascolinità. Sono un panico morale”».

Io», dice Bekhradnia, «non sono d’accordo. Non serve liquidare la preoccupazione come “panico morale”. Dobbiamo adeguarci alla nuova realtà. Se non lo faremo, ci saranno serie conseguenze per tutti coloro che sono coinvolti e per l’intera società».

In Gran Bretagna le donne hanno quasi raggiunto, con il 49,2%, l’obiettivo fissato dal governo del 50% di istruzione superiore, mentre i ragazzi languiscono al 37%. E tutte le statistiche mostrano come questo sia un fenomeno mondiale, con Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti grosso modo allo stesso livello, mentre in Scandinavia, nei Paesi Baltici e nell’Australasia la quota femminile è ancora più alta. E questo indipendentemente dalla classe sociale, dalla razza e dal numero chiuso.

La spiegazione – a parte il diverso modello di sviluppo fisico tra i sessi (alla pubertà le ragazze sono due anni avanti ai maschi) – sta nel cambiamento dei criteri di valutazione nella scuola secondaria (test GCSE), dove la maggior parte degli insegnanti sono donne. Trent’anni fa sono stati introdotti metodi di insegnamento e di esame con l’intenzione esplicita di discriminare positivamente le ragazze. Così è stato, ma a spese di un’intera generazione di maschi svantaggiati ed espropriati, con pesanti conseguenze sociali e educative. Risultati modesti al liceo portano a minori possibilità di ottenere un posto all’università, dove peraltro le nuove modalità di valutazione – verifiche continue anziché un impietoso esame finale – hanno di nuovo favorito le donne sugli uomini – così com’era il proposito.

Un esempio di quanto è successo è l’indagine internazionale PISA (Programme for International Pupil Assessment Exam) sui quindicenni: in Inghilterra i maschi erano più bravi delle compagne nelle materie scientifiche con un margine più alto che in ogni altro Paese, e facevano almeno bene come loro in matematica; eppure, quando gli stessi studenti facevano gli stessi test secondo il metodo GCSE, le ragazze li sorpassavano sui medesimi argomenti. Gli alti voti dei maschi nei PISA erano nei test di «spiegazione scientifica dei fenomeni», il modo più tradizionale di studiare ed essere valutati nelle materie scientifiche.
Nuove recenti scoperte sulla fisiologia del cervello e sulla genetica aiutano a spiegare le ragioni di tutto questo e a trovare una soluzione. Il professor Simon Baron Cohen, capo del Dipartimento di Fisiopatologia dell’Università di Cambridge e direttore del Centro di ricerca sull’autismo, indagando sul perché la maggior parte dei suoi pazienti fossero maschi, ha appurato che l’autismo era una forma estrema del cervello «maschile». E ha fatto una scoperta rivoluzionaria: il cervello femminile è cablato in modo dominante per l’empatia, quello maschile per la comprensione e la costruzione di sistemi. Il cervello maschile si forma nell’utero a tre mesi, quando una immissione di testosterone elimina alcuni – o nel caso dell’autismo – tutti i sentimenti di empatia. Dunque i maschi saranno per lo più sistemici e le femmine empatiche. L’autismo ha un’intenzione genetica: ci ha dato Leonardo, Newton, Einstein, Bill Gates.

Insegnare alla maggior parte dei ragazzi a identificarsi negli altri piuttosto che a sistematizzare è chiedere loro di usare una parte del cervello nella quale – per ragioni evolutive, biologiche e culturali – sono (grazie a Dio) insufficienti. Gli uomini hanno la fobia delle emozioni, ma adorano le macchine e i film di guerra. Insegnare alla maggior parte delle ragazze a leggere una mappa è un compito ingrato, ma non lo è chiedere loro di mappare la complessità dei rapporti in un romanzo di Jane Austen. Gli uomini vogliono essere rispettati dal sistema sociale intorno a loro; le donne vogliono essere ascoltate.
Questo maschio sistematizzante nota ciò che anche le femministe hanno notato, e cioè che gli uomini lasciano alle donne un settore quando l’offerta è superiore alla domanda. Il numero di maggio della rivista americana Chronicle of Higher Education pronosticava che, dopo la bolla Internet e quella immobiliare, la prossima che scoppierà potrebbe essere l’istruzione superiore. Le grandi università di ricerca negli Stati Uniti e nel mondo sopravviveranno, ma l’analisi costi/benefici comincia a far sembrare una laurea cosa sorpassata in un mondo digitale dove l’informazione – e i corsi di laurea – sono in rete. Dopotutto Bill Gates si ritirò da Harvard.

Gli uomini vogliono diffondere i loro geni e le donne vogliono qualcuno che protegga i loro figli. Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding (che si rifà a Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen) descrive una donna manager di 33 anni, occupata nel mondo dei media, dove già il 70% dei manager sono donne laureate. Statisticamente un uomo sposa una donna che ha la metà dei suoi anni più nove. Come farà Bridget a trovare un uomo di 48 anni che non sia gay, non sia già sposato o divorziato con figli e pesanti alimenti da pagare? In altre parole, dove troverà il Mr Darcy di Jane Austen, quel marito ideale più alto, più vecchio, più intelligente e più ricco di lei?
Questa è la conseguenza non intenzionale dell’istruzione femminile e la forza di mercato che ri-equilibrerà i sistemi scolastici del mondo.
La Stampa 06.07.09