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“La Corte Costituzionale boccia «l’anti-precari». Per le Poste rischio crac”, di Giuseppe Vespo

Il governo ha decretato: Precari per sempre», titolava L’Unità il 27 luglio di un anno fa. Qualcuno nella confusione della manovra estiva aveva inserito una norma che venne subito ribattezzata la legge «anti-precari». Una sorta di sanatoria, per legare le mani ai giudici del Lavoro e – si pensò ai tempi – fare un favore a qualcuno. I magistrati, in sostanza, non avrebbero più potuto obbligare le aziende a riassumere – a tempo indeterminato – i lavoratori precari che ne avevano diritto. Tutti quei dipendenti, cioè, che avevano fatto causa al datore di lavoro per l’ingiustificato ricorso a contratti a tempo determinato. Al posto della stabilizzazione, dall’entrata in vigore della norma, i lavoratori avrebbero potuto ottenere un indennizzo.
Nel corso di quest’anno sono stati diversi i Tribunali che hanno sollevato dubbi di legittimità costituzionale. I primi, nell’ottobre scorso, furono le Corti d’appello di Bari e di Genova. Il 23 giugno i giudici della Consulta – relatore l’avvocato Luigi Mazzella – hanno discusso e votato la norma anti-precari ed entro luglio renderanno pubblica la loro sentenza. Che è sfavorevole alla legge, ritenuta non in linea con i dettami della Costituzione. La sentenza, che ha visto un voto quasi unanime (14 contro uno) rimette in discussione migliaia di cause in corso, molte delle quali interessano Poste Italiane, che fino a cinque mesi fa – come ricordava il presidente di Poste, Giovanni Ialongo, lo scorso 25 marzo in Commissione Trasporti – ne aveva almeno «15mila in attesa di pronuncia da parte del giudice». Mentre, tornando ai dubbi di legittimità costituzionale della norma, è lo stesso Ialongo a riferire ai deputati che «su 18 ricorsi alla Corte costituzionale in materia di contratto a tempo determinato dodici sono relativi a Poste italiane e sei ad altre aziende». Tra queste ci sono «la Rai e Ferrovie dello Stato». Il cui numero di contenziosi, però, non sarebbe paragonabile a quello della società guidata dall’amministratore delegato Massimo Sarmi, che vanta precedenti importanti.
Il 12 marzo scorso secondo quanto accertato dalla relazione della Corte dei Conti sulla «gestione finanziaria di Poste Italiane per l’esercizio 2007», il «totale dei ricorsi giudiziari avviati contro la Società fin dai tempi della fase di trasformazione in Spa sono quantificabili, a maggio 2008, nel considerevole numero di 43.851 procedimenti». Da questi, «sono stati riammessi 25mila (lavoratori ndr) a seguito della pronuncia del giudice, con conseguente trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato», racconta Ialongo ai deputati. Ai quali ricorda che, per ridurre il peso delle cause, l’azienda ha firmato coi sindacati due accordi: il primo il 13 gennaio 2006 e l’altro il 10 luglio 2008.
Cosa prevedono questi accordi? Per capirlo, secondo i sindacati che li hanno firmati, bisogna dividere in tre gruppi i 25mila lavoratori che Ialongo definisce «riammessi» dal giudice. 4mila non hanno aderito al patto sindacati-azienda, continuando l’iter giudiziale in Tribunale. Circa 10mila avevano già in primo o in secondo grado vinto la loro causa con l’azienda, che si impegnava a riassumerli subito a patto che restituissero i risarcimenti riconosciuti dai giudici per i periodi di non lavoro. Mentre gli altri, sottoscrivendo gli accordi, hanno deciso di rientrare in un bacino al quale l’azienda si è impegnata – fino al 2010 – a fare ricorso. Fino ad oggi di questi circa 15mila solo 4.700 sarebbero stati assunti a tempo indeterminato. Per questo i sindacati chiedono ora di rivedere i patti, perché non credono che l’azienda riuscirà a rispettarli.
Ma cosa c’è dietro questo balletto di cifre, ricorsi e patti? Una montagna di denaro, raccolto nel “Fondo vertenze con il personale” delle Poste, che secondo la Corte dei Conti nel 2007 nonostante la «diminuzione del fenomeno del contenzioso» – anche a seguito degli accordi sindacati – è cresciuto dell’85%, toccando quota 262milioni di euro. Per questo, scrivono i giudici contabili, «è auspicabile un monitoraggio del fenomeno e la massima attenzione per evitare l’insorgenza di nuove liti». Un problema evidenziato dallo stesso Sarmi, il 24 febbraio alla Commissione Lavori pubblici del Senato. «Ognuna di queste cause che arriva a sentenza ci costa dai 70mila ai 90mila euro oltre a crearci notevoli difficoltà». Moltiplicando i ricorsi che a marzo risultavano in attesa di pronuncia ai costi indicati dal manager il rischio per le Poste è quello di avere un buco di un miliardo.
L’anomalia. Questo, spiega Sarmi, a causa dell’anomalia dei provvedimenti di reintegra. «Non discuto tanto la decisione del giudice sul fatto che questo tipo di rapporto di lavoro debba prevedere poi un’assunzione, quanto il dover pagare chi viene reintegrato per sentenza del giudice dal periodo in cui ha svolto il rapporto di lavoro fino ad oggi». Cioè dover pagare al dipendente i contributi persi durante il periodo di non lavoro. «Il problema – chiude Sarmi – consiste nel fatto che Poste Italiane ha un fondo di 400 milioni di euro che deve usare per questo motivo». Effetti collaterali del precariato. Ai quali qualcuno l’anno scorso ha tentato di porre rimedio inserendo, un sabato pomeriggio di piena estate, nel maxi-emendamento la norma anti-precari.
Era il 27 luglio del 2008, due settimane dopo l’ultimo accordo firmato da Poste e sindacati per creare un bacino di lavoratori dal quale assumere alla bisogna, invitando gli ex dipendenti precari a rinunciare ai ricorsi. Nel giro di due settimane, insomma, si tentò di dare a colpi di decreto una bella sfoltita alle migliaia di contenziosi aperti davanti ai giudici del Lavoro. Ora la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità di quella norma, riconoscendo i diritti lesi di migliaia di precari.

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