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“La giacca del Presidente”, di Tania Groppi

Il Quirinale può rifiutarsi di firmare una legge lo dice la Costituzione, c’è chi lo pretende. In realtà è un potere “debole” e poco usato

Nella democrazia maggioritaria e conflittuale alla quale è approdata la lunga transizione italiana, guardare in modo salvifico al Colle più alto, invocando un intervento del Capo dello Stato che ponga freno allo strapotere di una maggioranza onnipotente e la riporti nell’alveo della Costituzione è diventata un’abitudine.
Ciampi prima, Napolitano poi, sono stati di frequente “tirati per la giacchetta” dall’opposizione, invitati più o meno pesantemente a usare i propri poteri di garanzia: l’autorizzazione alla presentazione al Parlamento dei disegni di legge governativi, la promulgazione delle leggi, l’emanazione degli atti normativi del governo.
Dei tre poteri, è soprattutto la promulgazione delle leggi ad essere al centro dell’attenzione: quasi non c’è legge importante sulla quale non si chieda al Presidente di “non firmare”, utilizzando la possibilità di rinviarla alle camere per un nuovo esame. L’esperienza tuttavia ci mostra (emblematico il caso, nel luglio 2008, della “legge Alfano”, fulmineamente promulgata dal Presidente nonostante le molteplici richieste di rinvio, non in ultimo quella di cento costituzionalisti) che assai raramente queste pressioni hanno successo: non è una novità, se già nel 1953 il presidente Einaudi promulgò la cosiddetta “legge truffa” e lo stesso fece Ciampi con la legge elettorale del 2005.
I presidenti hanno sempre usato con grande prudenza il potere di rinvio. A partire dal primo caso, Einaudi nel 1949, i rinvii sono stati soltanto 59: in particolare 23 fino al 1983 e 36 dal 1983 ad oggi, con un incremento significativo nelle presidenze Pertini (7) e Cossiga (ben 22, di cui 15 negli ultimi 19 mesi di mandato). I motivi del rinvio, che la Costituzione lascia indefiniti rimettendoli alla discrezionalità del Presidente, hanno riguardato in ben 36 casi la violazione dell’articolo 81.4 della Costituzione, ovvero la norma che impone alle leggi di spesa di indicare la copertura finanziaria. Al di fuori di questo settore (nel quale tra l’altro il controllo della Corte costituzionale è molto difficile), i rinvii si contano sulla punta delle dita: se si escludono i 13 di Cossiga ne restano due di Einaudi, uno di Leone, uno di Scalfaro e cinque di Ciampi. Proprio la prassi della presidenza Ciampi è la più interessante: nonostante il Presidente abbia affermato (rispondendo alla domanda di una studentessa in un dibattito pubblico a Berlino, nel 2003) di poter utilizzare il rinvio soltanto in caso di «manifesta non costituzionalità» della legge, ha poi compiuto rinvii dettagliati e di grande peso, come nel caso della legge Gasparri sull’emittenza radiotelevisiva e della riforma dell’ordinamento giudiziario.
Dietro questa cautela c’è la considerazione che il potere di rinvio sia “un’arma spuntata”. Esso sconta limiti pesanti, proprio sulla base delle previsioni costituzionali: il Parlamento può infatti superare il rinvio con una nuova deliberazione a maggioranza semplice, lasciando la legge immutata (anche se le leggi riapprovate senza alcuna modifica sono solo 8 su 59), o apportando poche modifiche formali che non soddisfano i rilievi presidenziali. Non si tratta di un’ipotesi di scuola: i più importanti rinvii della presidenza Ciampi hanno prodotto meri ritocchi, senza intaccare l’essenza dei testi rinviati. A questo punto il Presidente è comunque obbligato a promulgare, tranne (secondo la dottrina, non essendosi mai in concreto realizzata l’ipotesi) qualora la legge sia tale da attentare ai principi supremi dell’ordinamento, nel qual caso egli potrebbe rifiutarsi, aprendo la via ad un drammatico conflitto istituzionale. Non è quindi difficile capire perché spesso i presidenti (non ultimo Napolitano, che non ha ancora operato alcun rinvio, pur avendo rifiutato di emanare un decreto-legge, nel caso Englaro) preferiscano incidere sulla produzione legislativa con il complesso di strumenti informali che vanno sotto il nome di “moral suasion”, spesso più efficaci. Tuttavia, anche qui non mancano i problemi, muovendosi in una zona sottratta al controllo dell’opinione pubblica, nella quale diventa difficile individuare le responsabilità. In definitiva, si ripropone, con estrema urgenza e attualità, il vero problema: quello delle nuove esigenze di garanzia che implica l’evoluzione della nostra forma di governo. Esigenze che né il rinvio presidenziale né la “moral suasion” possono soddisfare. Soltanto un ripensamento delle garanzie costituzionali nel loro complesso (che comprenda anche nuove vie d’accesso alla Corte costituzionale da parte delle minoranze parlamentari) può alleggerire il compito immane che oggi grava sul Presidente e contribuire a preservare la legalità costituzionale dalle aggressioni alle quali è sempre più sottoposta.

da l’Unità, 11.7.2009

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