partito democratico

“La sorte del Pd riguarda tutti”, di Sergio Romano

Molto di ciò che ho l e t t o in questi giorni sul Partito democratico e sui suoi travagli mi è sembrato scritto dall’interno della famiglia con tutti i sentimenti — rabbia, speranze deluse, affetti traditi—che distinguono generalmente le liti domestiche. Non mi sorprende. Esiste in Italia una grande famiglia progressista a cui appartengono idealmente, spesso per ragioni storiche ed ereditarie, molti italiani.

Essere «di sinistra», sia pure con ascendenze diverse, fa parte della loro identità. Oggi molti di questi italiani non sembrano rassegnarsi all’idea di avere perduto la loro vecchia casa. Sanno di avere bisogno di una casa nuova, ma non si risolvono a fare i sacrifici necessari per costruirla e sfogano questi sentimenti di frustrazione esasperando le difficoltà del Pd con una sorta di rabbioso compiacimento. Si direbbe talvolta che non siano alla ricerca di un’intesa, ma delle ragioni per renderla impossibile.

Credo che un estraneo, approdato in Italia da un altro Paese, farebbe fatica a raccapezzarsi e ragionerebbe in modo alquanto diverso. Constaterebbe in primo luogo che l’apparizione di Silvio Berlusconi sulla scena e il successo della sua strategia hanno straordinariamente semplificato il quadro politico italiano. Lavorando per sé Berlusconi ha lavorato anche per l’opposizione aprendo uno spazio a sinistra che aspetta di essere riempito. Qualcuno lo ha capito e, partendo dai materiali esistenti, ha cercato di riunire le due grandi famiglie storiche della sinistra italiana: quella dei nipoti del marxismo e quella dei cristiano-sociali.

Vi era, al momento della fondazione del Partito democratico, un inconveniente. Gli ingredienti della nuova sinistra italiana non corrispondevano, se non parzialmente, a quelli della sinistra europea e gli eletti del Pd al Parlamento di Strasburgo avrebbero corso il rischio di separarsi fra gruppi parlamentari diversi. Quell’ostacolo è stato superato. Per accogliere gli italiani il gruppo parlamentare socialista si chiamerà d’ora in poi «dei socialisti e dei democratici ». Mi sembra che nel cambiamento della ragione sociale vi sia una dimostrazione di sensibilità per i problemi della sinistra italiana e, implicitamente, il desiderio di aiutarla ad avere una dimensione europea. Non è tutto.

L’estraneo venuto da fuori constaterebbe che il Pd ha avuto il coraggio di scegliere il suo leader con una gara alla luce del sole fra candidati che hanno diversi profili politici e culturali. Le candidature sono interessanti, sollecitano dibattiti e polemiche, danno l’impressione di una vera gara. Può darsi che nel corso della gara gli scontri divengano aspri e preannuncino nuove fratture. Ma le primarie senza scontri sono quelle in cui il risultato è già stato scritto prima dell’inizio della partita. Servono a consolidare una leadership esistente, non a creare un partito nuovo.

Ancora un’osservazione. Dopo avere constatato che il quadro è meno tragico di come viene generalmente descritto, l’estraneo penserebbe che il rafforzamento del Pd serva a rendere meno fragile l’attuale bipolarismo e sia utile in ultima analisi per l’intero Paese. Prima o dopo il Pdl dovrà vivere senza Berlusconi. Gli sarà più facile superare quel passaggio se avrà di fronte a sé un forte partito democratico con cui misurare le proprie forze.

Il Corriere della Sera, 16 luglio 2009