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“Addio federalismo, torna la Casmez targata Dc”, di Alberto Statera

Risorge il grande elemosiniere per scongiurare il partito del Sud. La nuova formazione politica meridionale era accreditata di un 8 per cento. La Cassa per il Mezzogiorno venne vissuta come un vulnus alla autonomia siciliana.
Contrordine, compagni. Non c’è federalismo che tenga se questi di Palermo minacciano di fare il Partito del Sud. Un partito che quel marpione impunito di Luigi Crespi, ex sondaggista improvvisato del Cavaliere, stima nazionalmente – ohibò – addirittura all’8%. Così si rimaterializza in un soffio, dopo tre lustri di morte apparente, l’ectoplasma della Cassa del Mezzogiorno erogatrice generosa di fondi pubblici. Proprio quella che abbiamo da poco seppellito ad opera di Giuliano Amato e del compianto Nino Andreatta come il regno della nequizia, come la culla di tutte le nefandezze assistenziali, degli sprechi di ricchezza, dei finanziamenti a pioggia, delle cattedrali nel deserto, della corruzione, degli appalti truccati. Il paradiso in terra della mafia.

Amato spera ancora che non sia solo un contrordine sulla Cassa, ma un’idea innovativa del governo. E’ Giulio Tremonti, non un qualsiasi vicerè del Sud, ma il sub-ideologo prealpino della Lega Nord e la testa apparentemente più lucida della maggioranza di governo, a confezionare la teoria del caso: «Per il Mezzogiorno – distilla il ministro ai bordi di una piscina dei Mondiali di nuoto – occorre dal centro una pianificazione di investimenti sistemici e realizzati con l’appropriata strumentazione finanziaria. La questione meridionale è un problema nazionale e va gestito dal centro, senza cadere in suggestioni localistiche».

Federalismo? Ma no. Solo chiacchiere leghiste. Il centro comanda, altro che l’Italia delle autonomie federali. E Bossi annuisce, buono buono, al suo geniale mentore. Il bello è che il pur acculturato Tremonti dimentica o ignora qualche dettaglio storico, che in queste circostanze porta non proprio bene. Nella Sicilia dello Statuto speciale del dopoguerra, la Cassa del Mezzogiorno fu vissuta come un vulnus grave all’autonomia decreteta per la regione nel 1946 in una logica nittiana virata in salsa sicilianista. C’era il vecchio Enrico La Loggia (senior) a custodire da vera vestale la presunta autonomia sicula. Non i Lombardo e i Miccicchè, che oggi non sembrano avere un disegno, ma soprattutto da giocare le loro personali partite di voti e di potere locale con il ministro guardasigilli Angelino Alfano e con il presidente del Senato Renato Schifani. Nonostante tutto, nacque bene allora la Cassa del Mezzogiorno, voluta da una classe dirigente coerente, coesa e motivata.

Giorgio Amendola per il Pci strillava contro in Parlamento. Già prevedeva «fenomeni corruttivi». Mai predizione fu più azzeccata. Ma la creatura di Alcide De Gasperi, Donato Menichella e Pasquale Saraceno nacque fortissima, simulando il modello della TVA, la Tennessee Valley Authority, voluta in America da Roosvelt. Doveva garantire interventi aggiuntivi, la Cassa come la TVA, e non sostitutivi di quelli statali, dopo la depressione degli anni Trenta.

Il nome della Cassa del Mezzogiorno lo scelse personalmente il governatore della Banca d’Italia Donato Menichella. Furono stanziati mille miliardi di lire di allora per interventi straordinari, con la Cassa strumento innovativo di uno Stato forte e con una qualificata classe dirigente, che ottenne quel denaro dagli americani, come una specie di continuazione del Piano Marshall. Acquedotti, strade, bonifiche. Ma il circolo virtuoso non funzionò a lungo, fino a diventare, da emblema del sostegno al Mezzogiorno sostegno dei partiti politici, delle persone e delle cosche vincenti. Va di pari passo il declino della Cassa del Mezzogiorno e delle classi dirigenti di questo paese. Da strumento di amministrazione innovativo sul modello americano a serbatoio di voti dc nella gestione del presidente Gabriele Pescatore, che non a caso fu soprannominato «il grande elemosiniere» della repubblica.

Corre il 1958 quando la missione della Cassa viene ampliata dalla costruzione delle strade di campagna e delle altre infrastrutture all’industrializzazione. «L’acciao tra gli ulivi» è lo slogan bucolico del nuovo stabilimento dell’Italsider a Taranto. E analoghe idiozie si coniano, con pubblico denaro, per la Montedison a Brindisi, la Sir in Sardegna e tante altre cattedrali nel deserto, costate centinaia di miliardi di lire ai contribuenti e oggi chiuse o in fase di dismissione. Operazioni dotate di quantità immani di denaro pubblico, ma prive di qualsivoglia capacità imprenditoriale.

Le industrie, nel modulo della Cassa, si creano non per aprirle e farle funzionare, ma per incassare aiuti e finanziare i produttori di tessere della Dc. Quando le industrie si aprono, subito entrano in crisi. Tanto che nel 1991 il giurista Massimo Severo Giannini, visto lo spreco dei finanziamenti a pioggia, propone un referendum abrogativo dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, diventato ormai il simbolo del malcostume nazionale e del malaffare meridionale. Andreatta e Amato, l’uno ministro del Bilancio, l’altro presidente del Consiglio, cercano di dare il taglio. Nel 1992 si fa il conto: la Cassa rivendica 18 mila chilometri di nuove strade, 22.800 chilometri di acquedotti, 40 mila chilometri di reti elettriche, 1600 scuole e 160 ospedali.

Vero, probabilmente. Ma il Sud, che secondo lo stesso Saraceno in un trentennio abbondante non ha goduto più dello 0,67% del Pil nazionale, è allo sfascio come prima e anche peggio. Soldi spesi da tutti noi: 279.763 miliardi di lire, pari a circa 140 miliardi di euro. Strade costruite tante, tra gli agrumi e gli uliveti, tra le tante inutili cattedrali finto-industriali e chissà con quali materiali. Strade sì. Tante. Costruite per chi? Solo per quelli che dal Sud se ne sono andati e ancora se ne vogliono andare.

Ecco, è su questo pregresso che si misura l’improvvisa ansia meridionalista non tanto dei Miccicchè e dei Lombardo, che hanno da rivendicare dal patron le loro elettoralmente legittime quote di potere, ma di tutti i cantori di un meridione che resta per loro soltanto una quota rilevante di potere elettorale.

Berlusconi come De Gasperi, Tremonti come Vanoni, Miccicchè come Saraceno. Per carità, non diteci che questo sarà lo spot della nuova Cassa del Mezzogiorno. Se no forse – e lo diciamo non senza fatica – aveva ragione Ciriaco De Mita, che delle meno commendevoli faccende meridionali è tutt’altro che vergine, il quale in una famosa cena con i suoi sodali pliitici alla trattoria «Tre amici» di Roma proclamò nel 2004, suscitando incontenibili applausi: «In questo mondo di nani, diciamolo, i democristiani furono giganti».
La Repubblica 1 agosto 2009

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