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“Bocciare è un fallimento”, di Anna Maria Ajello*

L’incremento delle bocciature negli esiti scolastici ha attivato reazioni diverse centrate sul fenomeno in sé e sulla scuola oggi.
Bocciare vuol dire aver fallito: per chi? La bocciatura è un evento traumatico per gli alunni respinti, anche per quelli che sembrerebbero curarsene meno. Ma la bocciatura è anche un fallimento professionale per gli insegnanti. Per qualsiasi professionista un fallimento comporta la riflessione accurata su ciò che è successo, sulle cause, sui provvedimenti e sugli strumenti per evitarlo in futuro. A scuola questo è avvenuto o sta avvenendo? Se, finito l’anno scolastico, si spera in un’annata migliore con gli alunni rimasti, vuol dire che le bocciature e il conseguente fallimento vengono liquidati come «mancata voglia di studiare» da parte degli alunni bocciati, e lì finisce la questione. Questi eventi invece sono spie di un insuccesso professionale e vanno fronteggiati con strategie riparative, riflettendo su ciò che si può fare e su come organizzare diversamente il lavoro a scuola.
Che cosa succede invece al ragazzo bocciato? L’esito più rilevante di una bocciatura è che prende piede nel ragazzo la convinzione di «non essere portato» per la scuola. Si realizza un danno di motivazione: non solo non si è imparato un insieme di conoscenze di una certa disciplina, ma ci si convince che per quel tipo di conoscenze «non si è portati». Le «lacune di conoscenza» sono inoltre l’etichetta per questi alunni. Considerando invece la bocciatura anche come insuccesso professionale del gruppo degli adulti insegnanti, l’accoglienza di un ragazzo bocciato muoverà dal riconoscimento di quel danno, alla cui riparazione la comunità educante degli adulti deve in primis provvedere. Questo suggeriscono le esperienze di Scuola della Seconda Occasione (raccolte dall’Iprase del Trentino, Erickson 2009) i cui operatori hanno come primo obiettivo per gli studenti di «far fare loro pace con la scuola», ripristinando la loro voglia di imparare mediante la relazione con adulti significativi.
C’è un problema di «tenuta della classe»? Il problema più avvertito dagli insegnanti è «tenere la classe» (Fondazione Agnelli, Rapporto sulla scuola, 2009), fare in modo che gli studenti seguano le lezioni: è la spia più rilevante della difficoltà del fare scuola, mantenendo il clima necessario per l’impegno e il coinvolgimento degli studenti. Può assumere caratteri drammatici con atti vandalici o di bullismo, ma serpeggia diffusamente nelle forme meno acute, quando gli studenti si annoiano, cercando nell’interazione con i compagni in classe la sola motivazione per continuare a stare a scuola. Sentire le interrogazioni di due o tre compagni per volta, correggere gli esercizi o i compiti fatti a casa, leggere a turno dei brani dovendo ripetere ciò che si è appena letto sono attività pervasive della giornata scolastica. Raramente invece sono impegnati in attività quali risolvere un problema quotidiano usando nozioni apprese, cercarne di nuove, discutere e argomentare le proprie opinioni, insomma stare a scuola non per verificare un apprendimento avvenuto altrove, ma apprendere lì essendo tutti coinvolti. Ascoltare prevalentemente le parole di altri, insegnanti o compagni di classe, vuol dire invece annoiarsi: succederebbe anche agli adulti, figuriamoci a giovani in piena crescita!
La scuola deve cambiare profondamente la didattica, limitando al massimo la modalità trasmissiva e non centrandosi solo sulla disciplina e sulla severità troppo a lungo latitanti.

La Stampa, 7 agosto 2009

* Sapienza Università di Roma