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“Chi è il nemico dell’unità d’Italia”, di Mercedes Bresso*

Caro direttore,
fra meno di due anni cade il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma sembra che la questione sia vissuta con un certo imbarazzo dalla compagine attualmente al governo, discretamente impermeabile alle inquietudini di Carlo Azeglio Ciampi e del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.

In questa cornice, noi presidenti di Regione abbiamo un compito non facile: come far capire che si può – si deve – essere per il federalismo senza per questo essere contro l’unità nazionale? Come distinguere la lunga battaglia per un assetto istituzionale più moderno dalla lotta, tecnicamente reazionaria, di chi vorrebbe farci regredire, restituendo piena applicazione al concetto di sangue e suolo?

E come, infine, far capire che non abbiamo niente in comune con austriacanti e sanfedisti, tutti appartenenti alla medesima schiera di revisionisti che punta a riscrivere l’intera storia nazionale, dipingendo come una masnada di banditi e usurpatori le figure migliori degli ultimi due secoli, da Cavour ai fratelli Rosselli e da Garibaldi fino ai magistrati Falcone e Borsellino?

La mia opinione circa la necessità di pervenire rapidamente a un autentico federalismo fiscale è nota: in tutta Europa sono stati avviati processi di redistribuzione delle competenze a livello territoriale. Tutti i grandi Paesi dell’Unione, Francia compresa, stanno prendendo atto del fatto che lo Stato centrale non ce la fa più ad assicurare alcuni servizi essenziali. D’altra parte è sempre più evidente che l’alternativa al federalismo non sarà un più efficiente centralismo, ma la pura e semplice privatizzazione di interi spezzoni di servizi pubblici. Un esempio sopra tutti gli altri: la sanità italiana o sarà sempre più regionale, con la possibilità di utilizzare risorse proprie, o diventerà privata. Al principio di sussidiarietà verticale rischia di sostituirsi il principio di sussidiarietà orizzontale, con la salute dei cittadini affidata a una precarietà costituita interamente dall’alternativa fra beneficenza e mercato.

Ma questo non significa che lo Stato nazionale debba rinunciare, anche simbolicamente, a una serie di funzioni essenziali. La politica estera, l’esercito, la sicurezza pubblica, la bandiera, la difesa della lingua italiana in Italia e all’estero, la trasformazione e il pieno utilizzo degli Istituti italiani di cultura, l’organizzazione della Giustizia nel rispetto della Costituzione e dell’autonomia dei magistrati. Le Regioni non possono volere uno Stato più debole. In primo luogo perché non riuscirebbero a gareggiare in Europa con aree che invece si muovono con il potente sostegno di esecutivi efficienti e in secondo luogo perché la fragilità trasforma fatalmente quelle istituzioni che inevitabilmente debbono rimanere centrali in fattori che indeboliscono fortemente la competitività dei territori (un esempio: la giustizia civile).

Mi sembrano molto pericolosi, a questo proposito, alcuni provvedimenti (pochi, per fortuna) e le (molte, malauguratamente) parole di ministri ed esponenti della maggioranza.

Paradossalmente, mentre si frena sul federalismo «buono», si accelera l’applicazione di quello «cattivo». Vale a dire: da un lato il governo si tiene ben strette le competenze e i denari che ci servirebbero per far funzionare al meglio i servizi, dall’altro delega a terzi (le famose ronde) compiti – la sicurezza pubblica – cui nessun altro Paese al mondo rinuncerebbe.

Neppure le ultime uscite governative sulla scuola sono sembrate confortanti. Sarei curiosa di sapere che cosa si intende con precisione quando si parla (e si scrive) di insegnanti «più vicini alla cultura del territorio». A Torino abbiamo interi quartieri abitati da famiglie che arrivarono dal Sud cinquant’anni fa. Cosa dovremmo fare? Reclutare docenti esperti in dialetto calabrese? E se cinquant’anni sono troppo pochi per creare l’intreccio fra sangue e suolo, qual è la misura giusta? Un secolo? O un millennio? O magari duemila anni? sarebbe interessante: il latino si potrebbe studiare come lingua «del territorio» di venti secoli fa.

Ma, superata l’ironia, si torna al punto di partenza, vale a dire ai motivi autenticamente politici che impediscono al governo di dedicare non solo le risorse economiche, ma anche e soprattutto la doverosa attenzione istituzionale e culturale al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. E la verità è sotto gli occhi di tutti: i fatti dimostrano che la Lega Nord è la detentrice della golden share in grado di determinare la filigrana culturale dell’esecutivo, del tutto subalterno a una formazione che intende fare a brandelli un Paese che esiste da secoli nella percezione degli italiani e degli stranieri. La legislazione antiimmigrati, i dialetti nelle scuole, il ritiro dall’Afghanistan, l’ostilità alle celebrazioni per l’Unità d’Italia cui si è aggiunta la trasmissione in televisione dell’elezione di Miss Padania, la legislazione sulle ronde, i limiti posti all’acquisizione della cittadinanza, le proposte di separare le carrozze degli indigeni da quelle degli immigrati, i cori antinapoletani registrati su Facebook, le invettive da bar dello sport trasformate senza mediazione in programmi politici. L’ultima: introdurre in Costituzione il suono di «inni regionali» che neppure esistono. Ce n’è abbastanza per capire che attorno dal concetto di unità nazionale dobbiamo ricostruire i temi della cittadinanza, dei diritti civili, della democrazia.

Il Piemonte non è soltanto la regione da cui partì il Risorgimento. E’ la terra in cui per la prima volta in Italia si abolirono istituti che oggi si vogliono ripristinare: dalle legislazioni speciali per «non autoctoni» (allora ebrei e valdesi, oggi africani e musulmani) al «foro particolare del clero», che al momento mi pare in procinto di rinascere sia pure con altri beneficiari e beneficiati. Per questo è importante celebrare degnamente l’anniversario dell’Unità d’Italia: perché nel nostro Paese lo Stato unitario e la Repubblica hanno garantito prosperità e libertà.

La Stampa, 6 agosto 2009

* Presidente della Regione Piemonte