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“Luna park Italia. Alla fiera delle veline tra ragazze e ragazzi innocui e pronti a tutto”, di Claudio Camarca*

Venghino signori, venghino. Alla sagra della carne umana offerta un niente al chilo. Esposta tra gli arrosticini di pecora e lo zucchero filato. Sulla passerella improvvisata di fianco il Luna park, lungo la spianata polverosa un passo dal mare d’Abruzzo, l’Adriatico placido e limaccioso gettato come un lenzuolo sporco a lambire le spiagge dell’ex Jugoslavia, terra di conflitti fin de siecle generatori di badanti e prostitute trafficate lungo costa qui da noi. Montesilvano. Provincia di Pescara.
Serata calda di fine Luglio. Si presenta la manifestazione «Mister & Miss più belli di Italia». Ragazzotti blandamente palestrati e aspiranti veline donate alla piazza da mamme scalmanate e padri armati di videocamera. Famigliole turistiche assiepate su sedie in plastica. Bambini ipnotizzati da luminarie e festoni. Popmuzik sparata dalle casse stereo troneggianti i lati del palco. La presentatrice fuori peso strizzata in lycrapantacollant e sandali alla schiava declama nomi degli sfilanti e città di provenienza. Quelli ancheggiano e posano sbilenchi. Mimano ossute modelle intraviste in TV, figure sparse fuoriuscite dal caravanserraglio dei reality show. Concorrono in abito da sposa (sponsor della manifestazione), smart casual (?), elegant, a coppie, in costume da bagno. Nel pomeriggio ci sono state le prove. Scandite dagli ordini impartiti dall’organizzatore tutto mossette e sospiri. Inferocito per i ritardi degli aspiranti mannequin. Ciondolanti in maglietta e infradito, le spalle a gruccia buttate in avanti, la crema solare pittata sulla punta del naso. Ripetuto decine di volte ingresso e conquista della passerella. Inchini alla giuria e sorrisi in faccia al pubblico. Balbettano passi di danza. Desiderosi soltanto di stravaccarsi sulla sedia a scambiare sms al cellulare.
Il tramonto è scivolato nella sera portando cartate di pizza e the freddo alla pesca. Faranno trentasei gradi. La ruota del Luna park sfavilla luci al neon. Nugoli di zanzare tigre. Autoscontro e gonfiabili. Polvere a ondate soffiata dal parcheggio vicino. Sudore e bottiglie di acqua minerale che nel retro palco volano da una mano all’altra. I ragazzi sono gentili, innocui e al contempo pronti a qualunque miseria pur di scalare i gradini. Glielo leggi negli occhi liquidi. Nei gesti appena accennati. In quel loro non saper stare diritti con i piedi piantati in terra. Come fossero sempre un poco di là, un poco fuori quadro, al margine del fotogramma. «Sono qui per gioco». «Non m’aspetto niente». «Mi diverte». «Con le foto scattate da mia madre mi ci faccio un calendario da regalare agli amici». «Voglio lavorare in televisione». Tirano la pancia in dentro, si lucidano con olio baby johnson, capelli intrisi di gel, gocce di fard scivolate sulle guance. Sorridono, sempre. Nel tentativo inesausto di piacere a tutti i costi. Nessun problema a spogliarsi nel tendone davanti al ficcanaso. Come le ragazze, ragazzine di quattordici sedici diciotto anni. Volti liceali, passi di danza ad allentare la tensione, micro costumi color pesca inguainati a solleticare gli appetiti sordidi del pubblico maschile schierato sbracciante, telefonino innalzato a scattare future jpeg da scambiare nella ragnatela di internet. «Vengo da Firenze mi accompagna mio padre». «È solo per provare». «C’è tutta la mia famiglia nonni compresi». «Magari diventasse un lavoro». «Da grande voglio fare la veterinaria». Profusione di tatuaggi e piercing appesi all’ombelico. Smalto giallo oro a pois blu, extensions e rossetto carminio e tacchi diciotto centimetri. Alcune visibilmente anoressiche. Altre dalla coscia forte e il gluteo basso. Sculettano e fanno l’occhiolino e camminano in su e in giù per la passerella. Salutano ciao con la manina. Una madre domanda se per caso non avessi voglia di intervistare la figlia quindicenne. Un papà mi dona due foto della «sua piccola» scattate sulla spiaggia. Un altro si offre di spedirmi un filmino. Padri dal codino sulle spalle, bracciali in gomma, camicie finto hawaiane. Si arriva alle premiazioni di categoria. Per l’eleganza, il talento(?), la naturalezza, la disponibilità, la bellezza, etc. Una fascia in raso bianco non si nega a nessuno. La platea applaude. Anche le famiglie aquilane alloggiate negli alberghi lungo costa. Gli sfollati governativi. Turisti coatti sradicati dal sisma e eruttati da Bertolaso nelle pensioni due stelle. Barbe di tre giorni e capelli scarmigliati e panini alla porchetta nelle mani dei figli apatici. «Nessuno ci dice più niente». «Le giornate non passano mai». «Io ci sono tornato di nascosto a vedermi quello che rimane di casa mia». «Perché non lo scrivi che tutto questo è una merda».
Brutti, sporchi e cattivi. Sospesi in un limbo privo di filo dell’orizzonte. Un lavoro alle spalle. Risparmi dilapidati in caffé e sigarette. «Nell’albergo ci odiano, ci trattano come appestati perché gli bruciamo la stagione e c’è anche da capirli». «Non ci cambiano le lenzuola». «Mangiamo pasta e patate e frittata». «Lo devi scrivere che tutto questo è una merda». Mi faccio una birra acquistata al baracchino degli arrosticini. Due carabinieri sovrintendono l’ordine pubblico voltandosi dall’altra parte a rimirare il profilo monotono del mare. Sul palco la presentatrice premia e bacia i vincitori. Sindaco e giunta comunale e proprietari di autosaloni e fotografi di quotidiani regionali. La serata finisce in gloria. La serata finisce in vacca.
*regista
L’Unità 11.8.09