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“Sulla disunità d’Italia”, di Luca Ricolfi

Sarà perché ultimamente la Lega fa le bizze, sarà perché sta nascendo un «partito del Sud», sarà perché Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera, ha energicamente protestato contro il modo in cui (non) ci stiamo preparando al 150° dell’Unità d’Italia, sta di fatto che quello dell’unità o disunità del Paese è diventato il tema dominante dell’estate.

Ma forse sarebbe meglio dire che è tornato ad esserlo, visto che di questione meridionale si parla da sempre, anche se con accenti del tutto nuovi da quando, alle elezioni politiche del 1992, la Lega è diventata un attore fondamentale del nostro sistema politico. Da allora la «questione meridionale» non si impone più in quanto tale, ovvero in modo autonomo, bensì come l’altra faccia di una questione nuova, la «questione settentrionale». Ora non sono più gli italiani che si chiedono come aiutare il Mezzogiorno a uscire dalla sua arretratezza economica e civile, ma sono i cittadini settentrionali che si chiedono se il costo delle politiche a favore del Mezzogiorno non sia divenuto insostenibile. La questione meridionale classica era una sfida, e perciò stesso un motivo di unità del Paese, come ricorderanno certamente i meno giovani (nei primi Anni 70 gli operai metalmeccanici del Nord scioperavano per ottenere «investimenti al Sud»).

La questione meridionale come si pone oggi è essenzialmente un motivo di divisione, di scontro, di rafforzamento degli egoismi territoriali.
Che cosa è accaduto, fra la fine degli Anni 80 e i primi Anni 90, per capovolgere così radicalmente i termini della questione? Chi è abituato a ragionare soprattutto in termini politici ricorderà la caduta del muro di Berlino, un evento che ha reso molto più facile, per gli elettori, smettere di votare i cinque partiti-rifugio (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) che avevano governato l’Italia per quasi mezzo secolo, e puntare invece su partiti nuovi, anche radicali come la Lega. Chi tende a pensare che l’opinione pubblica conti qualcosa nella storia di un Paese, difficilmente non menzionerà la stagione di Mani pulite, che indubbiamente spazzò via (non del tutto e non definitivamente) il ceto politico della prima Repubblica, aprendo le porte a personaggi e forze politiche nuove: Bossi e la Lega, ma anche Berlusconi e Forza Italia, Mario Segni e il Patto per l’Italia, Di Pietro e l’Italia dei valori.

Tutto questo ha contato molto, ma spiega più il successo di partiti nuovi di zecca, fra cui la Lega e Forza Italia, che non il fatto che quel successo sia risultato, fin dall’inizio, inscindibilmente legato alla «questione settentrionale». Per capire perché da allora le due questioni, quella settentrionale e quella meridionale, abbiano sempre tenuto banco, fino all’attuale esito anti-unitario, dobbiamo – più prosaicamente – rivolgerci alla storia economica dell’Italia. Già, perché sono essenzialmente i rapporti economici fra Nord e Sud che sono cambiati profondamente alla fine degli Anni 80, subito prima dell’esplodere della questione settentrionale. Prima di allora il Paese era relativamente in equilibrio perché la pressione fiscale era bassa, il potere di acquisto cresceva, il Sud – come sempre – riceveva più di quel che produceva, ma nello stesso tempo non era il Nord a trasferire risorse verso il Mezzogiorno. Questo miracolo, di un gioco in cui apparentemente guadagnavano tutti, si realizzava attraverso la creazione di un immane debito pubblico, che fino a un certo momento ha permesso – contemporaneamente – di sussidiare sia il Sud, attraverso i trasferimenti pubblici, sia il Nord, attraverso i generosi interessi sui titoli del debito pubblico (Bot e Cct), in buona misura detenuti dai cittadini delle regioni più ricche.

Naturalmente non è vero che tutti ci guadagnavano, perché un perdente c’era ma non aveva diritto di voto: si tratta dei bambini, dei ragazzi e dei giovani degli Anni 80 e 90, che oggi vanno a ingrossare la generazione dei 20-40enni, ossia la prima generazione che guadagna meno della generazione precedente, ha minori sicurezze sul lavoro, andrà in pensione con un reddito dimezzato rispetto alle pensioni della generazione dei padri.

A un certo punto, tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90, il giocattolo si è rotto. Non si poteva andare oltre con il debito pubblico, che all’inizio degli Anni 90 era salito al 100% del Pil. Se non fosse entrata in Europa, prima con l’adesione a Maastricht (1992), poi con il cosiddetto ingresso nell’euro (1997), l’Italia sarebbe andata in bancarotta.

Entrandovi, però, ha dovuto stringere la cinghia: più tasse, meno debito, trasferimenti al Sud pagati dai cittadini del Nord. Dunque, per la prima volta nella sua storia, un grave squilibrio fra ciò che i cittadini del Nord versavano allo Stato, e ciò che ne ricevevano in termini di servizi pubblici. Non potendo espandere ulteriormente il debito, il gioco era diventato a somma zero: ciò che il Sud guadagnava in trasferimenti non poteva che perderlo il Nord in termini di maggiori tasse, un problema aggravato dal fatto che le poche tasse pagate dal Mezzogiorno erano anche il frutto di una (molto) più grande evasione fiscale.
Ma la storia non è ancora finita. Dopo un periodo (1998-2002) di relativo respiro, perché il reddito cresce ancora, la pressione fiscale diminuisce leggermente, la politica per il Mezzogiorno ottiene ancora qualche risultato, le cose precipitano. Il gioco che una volta era a somma positiva (perché ci guadagnava il Sud ma anche il Nord), poi era diventato a somma zero (perché il Nord pagava per il Sud), ora è diventato a somma negativa: per la prima volta ci perdono sia il Nord sia il Sud. La ragione è presto detta: il passaggio dalla lira all’euro assesta un duro colpo al potere di acquisto di tutti, a Nord come a Sud, il reddito non cresce più, e per mantenere costanti i loro consumi gli italiani sono costretti a ridurre il risparmio (secondo i dati Isae, fra il 2001 e il 2008 la percentuale di famiglie che risparmiano crolla dal 32,3% al 18,1%). Il Sud si sente tradito, perché per la prima volta vede una sensibile contrazione dei trasferimenti. Il Nord, a sua volta, ora che va indietro non se la sente più di sostenere il Sud, tanto più che su 100 euro fatti affluire nel Mezzogiorno circa 40 se ne vanno in sprechi. La Lega invoca il federalismo fiscale, il Mezzogiorno lo teme al punto da vagheggiare una Lega Sud, il Pd e il Pdl – per opposte ragioni politiche – fanno il possibile per annacquarlo.

Così, in un clima surreale, ci avviamo a ricordare il 150° dell’Unità d’Italia. Qualcuno sogna la divisione del Paese, qualcun altro la considera una disgrazia. Ma basta dare un’occhiata alle ore lavorate, al reddito prodotto, ai servizi pubblici, alla criminalità mafiosa, all’evasione fiscale, al costo della vita, per rendersi conto che siamo già un Paese diviso. La spaccatura fra le due Italie non è un prodotto della Lega, ma è una costante della nostra storia nazionale, un nodo di sempre che ora sta venendo al pettine. Forse, in vista dei festeggiamenti del 2011, dovremmo cominciare con l’accettare questa semplice verità.
La Stampa 15.08.09

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