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“Berlusconi e Antigone”, di Michela Marzano

Il re è nudo!
E a denudare Berlusconi sono state, paradossalmente, proprio le donne, quelle stesse donne che lui pretende di adorare, anche ministre». Certo, non tutte le donne sembrano condividere l’amarezza e il fastidio che serpeggia nell’universo femminile in seguito allo scandalo del sexy-gate.
Che pensano veramente le ragazze-immagine che hanno accettato di fargli da contorno, sperando un giorno, come è d’altronde accaduto, di essere promosse sulla scena pubblica indipendentemente dalle loro competenze? Che pensano tutte coloro che, più o meno inconsciamente, hanno introiettato il ruolo che il potere in carica continua a attribuire loro – dalle veline, alle attrici, passando per le madri di famiglia?
Ma sono state proprio alcune delle donne più vicine al presidente del Consiglio a rompere ll cerchio magico che circondava il premier, e a mettere a nudo le défaillances di un sistema arcaico e tradizionalista che cerca in tutti i modi di perpetrare il machismo italiano.
Prima di tutto Veronica Lario, la moglie, che, all’inizio di maggio, chiede il divorzio evocando le “umiliazioni” e le “stranezze” del marito. Poi Patrizia D’Addario, una delle escort invitate a Palazzo Grazioli, che alla fine di giugno, forte di una serie di registrazioni affidate alla magistratura, svela la triste e lugubre realtà delle serate berlusconiane. Infine, Barbara Berlusconi, che in un’intervista a Vanity Fair parla dell’importanza, per i rappresentanti politici di una nazione, di «salvaguardarè i valori che essa esprime».

Perché queste donne hanno allora reagito, nonostante tutto? Indipendentemente dall’attaccamento che una moglie può legittimamente provare per il proprio marito dopo trent’anni di vita in comune; indipendentemente dall’amore che una figlia continua a sentire nei confronti del padre; indipendentemente ancora dalle minacce e dalle accuse di ogni sorta che una escort può aspettarsi da parte dell’opinione pubblica ben pensante, compresa quella femminile. La questione non è tanto quella di capire le ragioni specifiche che hanno condotto queste donne a reagire ciascuna a modo suo. Nessuno può pretendere di entrare nell’intimo di ognuno di questi personaggi. Ciò che invece si può e si deve dire a livello generale è che non è certamente un caso che siano state delle donne, e non degli uomini, a avere il coraggio di aprire il vaso di Pandora. Né capire che le feste e le escort sono emblematiche di una società che non permette alla donna di godere degli stessi diritti degli uomìni. Senza cadere in una forma desueta di essenzialismo che vorrebbe identificare e distinguere l’essenza della femminilità opponendola a quella della virilità, si potrebbe riprendere quello che Rousseau scriveva dell’esistenza, nella donna, di una forma di indignazione morale all’origine della civiltà. E d’altronde ciò che aveva ripetuto Madame de Staèl, analizzando in modo sottile la posizione delle donne durante la Rivoluzione francese. Sono numerosi gli esempi da citare in cui le donne hanno giocato un ruolo chiave nella difesa della giustizia. Basti pensare, in un registro comico, allo sciopero dell’amore di cui ci parla Aristofane, come pure, su un registro ben più drammatico, al gesto di Charlotte Corday, o ancora alla lotta delle donne argentine per conoscere la verità sui desaparecidos. L’indignazione morale che provano oggi alcune donne è di questa stessa natura. Tanto più che sono proprio le donne – la loro immagine, il loro ruolo, la loro dignità, la loro parola – ad essere direttamente messe in causa in questa vicenda e che reagiscono di fronte a una storia che non è più semplicemente, tutti ormai dovrebbero averlo capito, un fatto privato.
Come diceva uno slogan del 1968, arriva un momento in cui il privato è pubblico, nel senso che i rapporti che gli uomini e le donne vivono nel quolidiano della loro vita privata riflettono esattamente i rapporti sodiali tra i sessi. E sono quindi sempre l’espressione dello sprito di un paese.

Da questo punto di vista, la vera domanda che ci si dovrebbe porre non è tanto perché alcune donne abbiano reagito, quanto perché tante altre, la maggioranza purtroppo, non lo abbiano ancora fatto. Perché anche se alcuni recenti sondaggi mostrano che la popolarità di Berlusconi tra le donne è calata del 13% dopo la scoperta di quello che è accaduto la notte a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa solo una minoranza ha la forza, diciamo anche il coraggio, di rompere il silenzio e di non voltare la testa dall’altra parte di fronte ad un comportamento e un’attutudine che ne calpesta la dignità e che le umilia? Perché ancora oggi tante donne sono afasiche, come diceva Chiara Saraceno in un articolosu Repubblica il 29 maggio, di fronte alla condizione femminile in Italia che la vicenda Berlusconi mette in scena in modo emblematico? Perché alcune, una minoranza certo, arrivano al punto di pensare che, in fondo, le donne raccolgono quello che hanno seminato con la rivoluzione sessuale (“il corpo è mio”)?

Ci sono due spiegazioni possibili. Da un lato, quella proposta da alcune femministe americane che, analizzando i meccanismi di dominazione patriarcale, puntano il dito sui circolo vizioso del cosiddetto hate speech, il discorso dell’odio che assegna le donne a un ruolo ben determinato da cui non possono più uscire. Tutte coloro che osano rivendicare ad altavoce l’uguaglianza e i propri diritti civili non sono prese sul serio: le loro rivendicazioni sono immediatamente discreditate e si utilizza contro di loro non l’argomentazione, ma l’arma subdola dell’insulto che le fa tacete. Una donna che chiede di essere rispettata è sempre un’isterica, una donna frustrata. E la stessa tecnica che utilizza il potere quando, poco sicuro di sé, cerca di soffocare le rivendicazioni delle minoranze (immigrati, omosessuali, ecc.). Allora si tace. Ci si nasconde. Si impara a introiettare l’immagine negativa che di noi stessi ci viene rinviata. Almeno fino a quando non si riesca a prendere una distanza critica, a separare la violenza dell’insulto dal suo contenuto oggettivo, e a costringere l’avversario alla discussione razionale. Il che non è mai semplice, in ltalia, soprattutto se si osservano le invettive che occupano la scena televisiva.

L’altra spiegazione rinvia alla difficoltà, per le donne, di assumere una posizione d’indignazione morale, soprattutto nella vita di tutti i giorni, dal momento che le conseguenze di una tale presa di posizione possono essere molto più drammatiche di quanto si creda (basti pensare alle violenze contro le donne che contano oggi, in Italia, una vittima ogni tre giorni). Per dirla altrimenti, è più facile seguire l’esempio di Ismene che quello di Antigone. Nell’Antigone di Sofocle, l’eroina che si ribella coraggiosamente contro le leggi ingiuste della cité è sola. Sua sorella Ismene le chiede di sottomettersi al re Creonte e di restare al proprio posto: “siamo nate donne, sì da non poter lottare contro uomini… essendo sottoposte a chi è di fronte dobbiamo obbedire a questi ordini e ad altri ancora più dolorosi”. Antigone rifiuta di ascoltare la sorella. Ma, opponendosi a Creonte, l’eroina incorre nel sacrificio estremo e muore.

Non è un esempio facile da seguire. E’ per questo che le donne dovrebbero comprendere, soprattutto in Italia, che è solo mostrandosi solidali a Veronica Lario e alla sua indignazione morale che potranno evitare, in futuro, di ritrovarsi di fronte a questa triste alternativa: Antigone o Ismene.
da La Repubblica

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