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“Fratelli d’Italia all’autogrill”, di Antonio Scurati

Su una piazzola di sosta ti può capitare di sentirti italiano. Sei lì che risali la penisola estiva con l’auto carica di vivande e masserizie, costretto a fermarti ogni due ore per allattare o placare il pianto della bambina, all’affannosa ricerca di un’ombra stenta da pompa di benzina, la canottiera e i calzoni corti zuppi di sudore, sei lì che con il tuo corpo cerchi di schermare tua figlia dal vento di scirocco e dai rombi dei Tir che sull’Autostrada del Sole sfrecciano verso i valichi del Nord e, d’un tratto, vieni colto dal sentimento nazionale.

Vedi attorno a te questa gente tornata proletaria sotto la spinta compulsiva all’esodo di Ferragosto, li vedi come te affannosi, sudati, ossessivamente prodighi di cure per l’infanzia, li vedi sbracati, caciaroni e sanguigni tanto a Caianello quanto a Panzano o a Roncobilaccio. Ovunque avverti il nucleo simbolico di una nazione irradiare dalle pile di bestseller dedicati al nostrano sistema criminale, o ai vizi pubblici e privati dell’arcitaliano leader nazionale, irradiare dalla mercificazione su grande scala della tipicità locale (le olive di Oneglia, il pane di Altamura o gli amaretti di Saronno ma tutti rigorosamente della linea mass-market «Terre d’Italia»), dai cofanetti platinum collection del meglio di Rino Gaetano o di Eros Ramazzotti, dai panini ultimo modello farciti con il prosciutto di San Daniele e la bufala campana a denominazione d’origine protetta. Vedi tutto questo, tutta quella gente che supera a destra e piscia regolarmente fuori dalla tazza ma non lesina una carezza ai bambini, li vedi e, a un tratto, non dubiti più che l’Italia esista, a un tratto svaporano le polemiche sul divario Nord-Sud, sulle gare d’ignoranza tra campani e veneti, su un sistema scolastico franante che si aggrappa alla facezia dei maestri di dialetto. Sparito tutto questo nel miraggio di una canicola agostana ai vapori di benzina, d’un tratto ti dici: sono tutti italiani, sono la mia gente.

Certo, lo sai, la tua è commozione da autogrill. E’ l’inveterata inclinazione plebea a sentire, in compagnia degli umili, «farsi più puro il cammino dove più turpe è la via». Certo lo sai, è una rivalutazione pelosa di un nucleo identitario antropologico cui paghiamo da sempre un tributo pesante: ci sentiamo una famiglia più che una nazione, ci aggrappiamo a tutto ciò che nel carattere nazionale ci allontana dalle istituzioni e ci spinge verso il sentimento o senso comune (a cominciare dall’arte di arrangiarsi) perché ciò ci esenta dal senso civico o da quello dello Stato (si veda l’ultima indagine LAPOLIS-DEMOS-LIMES). Certo lo sai, abbandonarsi all’afflato verso il Paese tutto cuore oltre l’ostacolo e parenti al seguito, il Paese tutto genio e monnezza, è come accettare che l’Italia non debba esistere se vogliamo che esistano gli italiani. Gli Italiani sono forse l’unico popolo al mondo che si autocelebra discreditando le proprie istituzioni: per noi italiani, l’Italia è lo straccio da piedi del sentimento nazionale.

Sai pure che di questo afflato mistico verso una Patria immaginata nella fantasmagoria del miraggio vacanziero di un italiano che si scopre tale solo in mutande – non è forse finita la gloriosa parabola del Made in Italy in una coppia di stilisti famosi nel mondo per una linea di mutande vistosamente griffate? – di questo essere popolo soltanto al fondo delle proprie miserie, fa parte anche l’odiosa rilettura della storia nazionale come immane impresa criminale. Quella pseudo-sapienza cinica tutta spallucce e strizzatine d’occhi secondo la quale il risorgimento sarebbe stato, alla fin fine, una prevaricazione violenta delle élite sul popolo, la Prima guerra mondiale soltanto un’enorme, insensata carneficina, il fascismo la presa del potere di una specie di alieni venuti dallo spazio, la resistenza una guerra per bande di feroci assassini, il boom economico un prodromo del consumismo e della crisi dei valori e tutto questo il paravento dietro cui sempre si agitarono le ombre degli interessi criminali.

Ti ribelli a questo dotto disfattismo civile che si nasconde dietro l’alibi della denuncia indignata, eppure ti tieni stretta la tua commozione da autogrill che gli giunge pericolosamente vicina. Te la tieni stretta perché in principio l’Italia fu precisamente questo: una Patria immaginaria. Un meraviglioso racconto di finzione che per credersi vero, e dunque divenire realtà, ebbe bisogno di un generoso eccesso d’emozione. Te ne stai lì su quella piazzola di sosta surriscaldata e il pensiero va, posandosi sul Paese riunificato dagli autogrill, all’inizio della sua storia. L’eco della prima insurrezione contro lo straniero giunge fino a te nel vagito di tua figlia come una vibrazione sorda della terra avita.

Il 18 di marzo del 1848, quando insorsero contro gli austriaci, i milanesi erano un popolo pressoché disarmato, estraneo alla guerra da due generazioni e dominato da una guarnigione di 20.000 uomini del più efficiente esercito del tempo, asserragliato in una fortezza imprendibile. Eppure, soltanto cinque giorni più tardi, quella rivolta che sembrava destinata a finire in un massacro di cittadini inermi, si era trasformata in una gloriosa vittoria di popolo. Porta Tosa ribattezzata Porta Vittoria, gli austriaci di Radetzky in fuga e Milano che dava inizio al Risorgimento nazionale. L’Italia non esisteva nell’esperienza di nessuno di quegli aristocratici, borghesi, popolani, uomini, donne, vecchi, giovani, laici e preti che si erano battuti fianco a fianco sulle barricate. Ma tutti avevano per un istante creduto all’Italia che musicisti, pittori e poeti avevano immaginato per loro come donna amata e violentata dallo straniero. E così, nel miracolo mitopoietico di una politica profondamente erotizzata, quella Patria immaginaria aveva cominciato a esistere davvero.

Sarà forse la canicola mediterranea, ma la mia commozione da autogrill mi suggerisce che, se proprio si deve scegliere una nuova data per la celebrazione dell’anniversario della Patria, quella data dovrebbe essere cercata in quel bagliore dell’origine, in quel sentire assoluto che si dà solo prima che tutto abbia inizio. Il 18 di marzo del 1848.

da La Stampa

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