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“La scuola alla rovescia”, di Marco Rossi Doria

Strano agosto di uno strano Paese.
L’avvio dell’anno scolastico è alle porte. Ma il dibattito pubblico sulla scuola assomiglia al mondo alla rovescia.
Da settembre ci saranno 17.000 cattedre in meno e le classi, in media, saranno di 26 bambini alla scuola dell’infanzia, 27 alla primaria e 30 alle medie? Nell’agenda dei ministri preposti non c’è il come contrastare il prevedibile caos che a giorni ne deriverà. Semplicemente si ribadisce che ci sono troppi docenti in Italia.
I dati ci dicono che ci saranno almeno 3 volte più classi di scuola primaria a tempo pieno al Nord rispetto al Sud? Non si propone un confronto in Conferenza Stato – regioni sul grande tema della disparità delle opportunità in relazione agli squilibri territoriali, come si fa in paesi di forte tradizione federalista quali Germania, India, Stati Uniti. Non ci si preoccupa che saranno di nuovo sfavorite le popolazioni infantili che già sono più escluse dalla conoscenza e dunque dalle opportunità. Si sfrutta la notizia per buttare la colpa sul meno fortunato.
Secondo quanto emerso dalle prove Invalsi troppi nostri ragazzini alla fine della scuola media, a Sud ma anche a Nord, non conoscono le fondamenta della lingua italiana indispensabili per continuare gli studi e esplorare il mondo? La via proposta non è lavorare insieme per far valere meglio i curricoli che già ci sono, nazionali ed europei. Non è confrontarsi con l’urgenza della valutazione dei risultati dell’attività educativa o trovare criteri unitari di reclutamento dei docenti. Non è la proposta di un sereno dibattito in Parlamento sul come assicurare che i nostri ragazzi imparino di più. E non è neanche un ragionevole confronto sul rapporto tra lingue locali e lingua nazionale nei processi di apprendimento, come si fa in tutti i paesi dove convivono queste diversità. No. Si propongono docenti scelti sotto ciascun campanile o l’apoteosi delle tradizioni locali contro la lingua che unisce.
La Banca d’Italia spiega che gli stranieri occupano posti che noi non occupiamo, che favoriscono l’occupazione delle donne e la buona integrazione tra settori nel mercato del lavoro? Ci si aspetterebbe di poter registrare che il paesaggio umano dell’Italia si arricchirà stabilmente di lingue, religioni, e che la terzietà e laicità della scuola diviene ancor più importante per consentire il confronto tra modi di credere, dubitare, affermare, non credere. O si attenderebbe un dibattito sull’italiano come grande lingua veicolare, da imparare tutti con rigore e presto nella vita. O una riflessione sul fatto che molti ragazzini stranieri risultano più bravi nella matematica o nelle scienze e che l’integrazione è un processo bi-univoco. Niente affatto. I media si riempiono di dichiarazioni focose sul tenere distanti tra loro convinzioni, percorsi e opportunità: sì a un credo più importante di ogni altro, giù l’italiano e su i dialetti, dentro i bimbi italiani e un po’ più fuori quelli non italiani.
È tempo di reagire a questi deliri. In modi pacati, argomentati, fermi. E di proporre ogni volta delle concrete, sensate vie di uscita.

L’Unità, 20 agosto 2009

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