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“Ma l’emergenza sono le lingue straniere”, di Stefania Giannini*

Caro direttore,
il tema caldo di quest’esta­te calda è il dialetto come materia obbli­gatoria nelle scuole d’Italia. Dialetto e approfondite conoscenze di storia e cultura lo­cale per studenti e insegnanti, per rimarcare con penna e calamaio del legislatore quel puzz­le raro e affascinante di differenze e dissonan­ze, anche microscopiche, che compongono l’identità italiana. Nell’Italia del burro, così co­me in quella dell’olio beninteso, si torni a valo­rizzare i tratti autoctoni, a partire dalla lingua. Questo, in estrema sintesi, il messaggio politi­co della Lega di Bossi, che al di là delle esterna­zioni ad effetto, potrebbero diventare disegno di legge in tempi brevi. La serie di proposte as­somiglia sempre più a un vero e proprio proget­to culturale. Doveroso parlarne, quindi, anche fuori dall’arena politica, perché i progetti cultu­rali creano le premesse per la crescita e lo svi­luppo di un paese, oppure per il suo declino.

Torniamo alla lingua e ai dialetti. Battaglia di retroguardia o colpo di reni innovativo, a rinfor­zo tattico della visione concreta del federalismo leghista? Il tema è caldo, dicevamo, e molto complesso. Possibile tuttavia, e spero utile, fare chiarezza, in poche mosse.

Prima mossa. Il quadro storico-linguistico dell’Italia moderna, dall’Unità ad oggi, è chiaro e irreversibile. L’unità linguistica, che fa dell’ita­liano lingua nazionale e ufficiale in tutti i conte­sti pubblici e formali e in gran parte di quelli informali, soprattutto per le ultime generazio­ni, è il risultato di un lungo processo di evolu­zione storica e culturale. L’italiano non è l’espe­ranto. Ne sono stati protagonisti, nell’ordine: la scuola pubblica (nell’insegnamento e nella valo­rizzazione della grande tradizione letteraria na­zionale), la leva militare obbligatoria, la radio e la televisione. Si tratta di una conquista fonda­mentale ai fini della costruzione di una coscien­za nazionale unitaria, la cui forza politica è più facilmente misurabile guardando all’immagine dell’Italia all’estero, come spesso accade. L’ita­liano è in crescita come lingua di studio nel mondo (nella sola area mediterranea oltre 20.000 gli studenti ad oggi, con un incremento che sfiora il 30% annuo, in paesi come Turchia, Libano, Egitto e Israele).

L’italiano ci identifica come superpotenza culturale nel mondo, in quanto lingua dell’arte e della musica, ma ormai anche come lingua di interscambi commerciali sempre più fitti. Si punti, allora, al miglioramento delle competen­ze linguistiche dell’italiano per gli italofoni (ce n’è bisogno!) e per gli stranieri e si potenzi quel­la politica di promozione linguistica e cultura­le, che ha fatto della Francia e della Gran Breta­gna modelli e punti di riferimento politico e cul­turale in vaste aree del pianeta.

Seconda mossa. Le politiche linguistiche di un paese devono essere di lungo respiro e in sintonia con il disegno politico generale. Due priorità in agenda, su cui il governo si sta impe­gnando intensamente: internazionalizzare e in­tegrare, cioè aprirsi al resto del mondo (nelle imprese, nelle università, nelle istituzioni) e cre­are condizioni concrete di coesione e solidarie­tà sociale fra italiani e stranieri immigrati. La lingua nazionale, in entrambi i casi è strumen­to fondamentale, direi necessario, perché i due processi in atto, di apertura e di accoglienza, si­ano efficaci e duraturi.

Terza ed ultima mossa. I programmi e i meto­di di insegnamento della scuola devono rispon­dere agli obiettivi educativi condivisi ed essere commisurati alle risorse disponibili. Degli obiettivi si è detto. Della scarsità di risorse ben sappiamo. Non dimentichiamo, in questo qua­dro, l’«emergenza lingue straniere»: siamo an­cora un paese fondamentalmente monolingue e Bruxelles ci chiede almeno due lingue per tut­ti. Dobbiamo continuare a investire quindi, di più e meglio, nell’insegnamento delle lingue straniere nella scuola. Non vorremmo che fosse­ro i nostri figli a pagare il prezzo di questo ritar­do. Per i nostri figli, c’è da augurarsi, infatti, un futuro di mobilità, fisica e intellettuale, che non confligge affatto col rafforzamento dei le­gami con le proprie radici territoriali, anzi. Cas­soela o orecchiette, barolo o sagrantino, dialet­to veneto o napoletano, l’italianità continua ad essere espressa al meglio per via sintetica più che per frammentazione analitica. Ragion per cui, di fronte alla Gioconda di Leonardo, così come nell’ascolto della Tosca di Puccini o della Traviata di Verdi, continuiamo a sentirci tutti in­distintamente e orgogliosamente italiani. E vor­remmo continuare a farlo, in Italia e nel mon­do.

* Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia

Il Corriere della Sera, 20 agosto 2009