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“Avvistati da almeno dieci navi ma nessuno si è fermato a salvarci”, di Francesco Viviano

“Quando abbiamo visto quel peschereccio avvicinarsi pensavamo di avercela fatta. A bordo molti erano già morti, ma in tanti, almeno una trentina, eravamo ancora vivi.

“Eravamo stremati, stanchi, disperati, ma gli uomini di quel peschereccio, quando l’imbarcazione si è avvicinata, ci hanno dato soltanto un paio di bottiglie d’acqua e qualcosa da mangiare. Poi sono spariti, se ne sono andati via”.

Hampton, 17 anni, eritreo, è il più giovane dei cinque sopravvissuti all’ultima strage del mare nel canale di Sicilia. È in infermeria del centro di accoglienza di Lampedusa insieme agli altri tre uomini e una donna, tutti eritrei, cristiani. Tutti partiti più di venti giorni fa dalle coste libiche insieme ad altri 73 connazionali. Compagni di viaggio morti per gli stenti della fame, della sete, per le ustioni del sole e dei vapori della benzina.

Racconta Hampton: “Non credevamo a quello che stava accadendo, gli uomini di quel peschereccio hanno visto che stavamo morendo, ma non ci hanno portato a bordo. Non erano italiani, parlavano inglese. Speravamo che magari dessero l’allarme, che segnalassero la nostra posizione a qualcuno, invece siamo rimasti in mare per altri giorni e tutti gli altri che erano ancora vivi, tranne noi cinque, sono morti. Con noi Dio è stato buono, ma tutti gli altri, non ci sono più, sono morti e noi li abbiamo buttati in mare, come quelli di prima”.

Hampton è il meno grave di tutti, ma nessuno dei sopravvissuti rischia di morire. “Se la caveranno” dice una dottoressa dell’istituto nazionale migrazione e povertà che assiste gli extracomunitari ricoverati nel pronto soccorso del centro di accoglienza dell’isola.
Titti è l’unica delle trenta donne sopravvissute a questa strage. Con lei c’erano anche altri tre suoi familiari, due cugini ed un fratello che si erano imbarcati sul gommone della morte sperando di raggiungere l’Italia. Parla con difficoltà in dialetto Tigrino, la lingua della regione eritrea vicino ad Asmara, ad ascoltarla c’è un suo connazionale che lavora per “Save the children” nel centro di accoglienza di Lampedusa. “Sono arrivata in Libia alcuni mesi fa – dice Titti – è stato un viaggio faticoso e pieno di insidie e pericoli. Solo la forza della disperazione, la speranza di arrivare in Italia mi ha fatto superare tutte le difficoltà”.

Titti racconta che è stata per un paio di mesi a lavorare, “come una schiava”, nelle case dei libici. “Con me – prosegue Titti – c’erano altre mie amiche ed altri connazionali, tutti in cerca di fortuna, tutti con la speranza di raggiungere l’Italia dove da anni vivono altri nostri parenti ed amici”.

Titti smette poi di parlare, le spuntano le lacrime agli occhi, i ricordi di quei giorni vissuti in mare in balia delle onde e delle intemperie del giorno e della notte. È stremata e piena di ustioni in varie parti del corpo, ma a tarda sera riesce a prendere sonno e ad addormentarsi. Hampton è più loquace, ha ancora forze nonostante tutto ed ha voglia di raccontare quello che ha vissuto insieme altri atri. “Quando i trafficanti, dopo alcune settimane che ci tenevano prigionieri in dei capannoni, hanno stabilito che potevamo partire, ci hanno portato su una spiaggia. Lì c’era già un gommone pronto con delle taniche di benzina a bordo. Erano poche ed uno di noi lo ha fatto notare: “come faremo a raggiungere Lampedusa con questo carburante?”. Loro ridevano, dicevano che potevamo andare anche in America, ma non era così e dopo qualche giorno, il motore si è fermato. Avevamo visto di notte le luci delle piattaforme petrolifere che i trafficanti ci avevano detto di raggiungere perché quella era la strada giusta. Ma non potevamo navigare, eravamo come rami che galleggiano nei fiumi. Il gommone andava avanti e indietro, girava attorno a se stesso. Di giorno era un inferno, il sole e l’acqua salata martoriava le nostre carni, la notte c’era freddo e non avevamo nulla per riscaldarci. Pregavamo e speravamo. Poi quel peschereccio che pensavamo ci potesse salvare e che invece se n’è andato via. Abbiamo incontrato altre barche o altre navi, almeno dieci, non li distinguevamo bene da lontano. Forse ci hanno anche visto, io e i pochi ancora con qualche energia gridavamo, sventolavamo le nostre magliette. Tutto inutile. Nessuno ci ha mai avvicinato e così cominciavamo a morire”.

A bordo non c’erano bambini, ed i primi che hanno finito di vivere sono state le donne. “Erano le più deboli, tentavamo di darci aiuto l’uno con l’altro, ma non potevamo fare nulla, non avevamo più niente, molti avevano cominciato a bere acqua di mare e sono stati i primi a morire. Li abbiamo dovuti buttare in mare, uno dopo l’altro, non c’era altro da fare ed è stata una cosa dolorosa anche se Dio ci perdonerà di questo”. Poi, ieri mattina, dal mare è spuntata una nave grigia, era quella della guardia di finanza che in questi ultimi mesi ha soccorso altri extracomunitari in mare riportandoli però subito in Libia, senza sapere da dove venivano.

Ma questa volta in quel gommone c’erano dei fantasmi, dei moribondi, ed il “respingimento” non è stato possibile.

La Repubblica, 21 agosto 2009

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