attualità, memoria

“Romanzo popolare. «In sella a una bicicletta per sfidare il nazismo»”, di Walter Veltroni

Pubblichiamo dall’Unità un’anticipazione di “Noi”, il nuovo libro di Walter Veltroni per Rizzoli che uscirà il 26 agosto. Viaggio nella memoria degli italiani che unisce eventi storici – le bombe del ’43 a Roma e il terremoto dell’Irpinia – agli oggetti, le canzoni e i tic di un’identità collettiva.

«Per Giovanni andare in bicicletta significava sentirsi vivo. Era come una parte di sé, come se le due ruote fossero gambe, oppure ali. Era il suo unico modo di conoscere liberamente ciò che era fuori dall’orizzonte della sua famiglia, della sua casa, del suo quartiere. Quando si teneva forte al manubrio e frenava in discesa, con il ciuffo che gli si alzava per il vento, si sentiva il padrone del mondo. La bicicletta era libertà e scoperta. Giovanni pensò che forse proprio per questo i nazisti ne avevano paura. Pensò che quel senso e quella possibilità di libertà fossero incompatibili con le scarpe chiodate e le marce al passo dell’oca e quegli elmetti squadrati e truci come la croce uncinata, che gli metteva il gelo addosso. Pensò che la bicicletta era una libellula e i nazisti un elefante e che la prima avrebbe sempre vinto sul secondo. Per questo il comando tedesco di Roma aveva imposto il divieto di circolazione ai mezzi a due ruote dalle cinque del pomeriggio alle cinque e trenta della mattina successiva. Mai più quei tramonti rossi da Trinità dei Monti, mai più le partite di calcio al parco dei Daini. Giovanni sentiva che anche lui, un ragazzino, stava perdendo una parte della propria libertà.
Così passava molto più tempo a casa. Ma non gli dispiaceva. Quelle stanze non erano più vuote, dal momento in cui era arrivata Giuditta. La mattina, quando tutti erano fuori, Giovanni si occupava di lei. I due anni di differenza tra loro segnavano un confine molto netto tra l’essere bimbi e l’essere ragazzi. E allora spettava a lui preparare il latte e il pane e portarglielo, non senza difficoltà, nella stanza dei genitori, dove era stato aggiunto un lettino. La svegliava chiamandola sottovoce, dolcemente. E la guardava, con quella massa di ricci sparsi sul cuscino e quell’aria innocente e indifesa. Lui non aveva potuto parlare, quella sera, ma se lo avesse fatto avrebbe detto che aveva ragione la madre e che lui, proprio lui, si sarebbe occupato di farla sentire meno sola, in una famiglia che non era la sua.
(…) Giuditta non poteva uscire, nessuno doveva sapere che era lì. Aveva portato le sue bambole da casa e passava il tempo con quelle. Costruiva delle storie che Giovanni ascoltava incantato. Lui non aveva la minima idea di come si giocasse con quelle bambine di pezza. Per lui esistevano il piccolo cacciavite e la piccola chiave inglese del meccano. E lui le storie le sapeva disegnare, non inventare. A casa di un suo amico, una volta, aveva giocato con i soldatini. Ed era rimasto colpito dal fatto che insieme alle piccole sagome che sparavano o lanciavano bombe a mano, ci fossero molte figure di barellieri e crocerossine, di feriti e di medici. Che cioè neanche un gioco riuscisse a mascherare la guerra vera, fatta di sangue che scorreva, di braccia amputate e di morti.
Giuditta ogni tanto piangeva. Giovanni lo sapeva. Di solito lo faceva in bagno, quando in casa non c’era nessuno se non lui. E allora si metteva con le spalle appoggiate alla porta, quasi a proteggerla, ed era pronto a entrare per confortarla. Il ragazzo aveva immaginato le parti rovesciate, aveva pensato a se stesso in una casa sconosciuta tra persone sconosciute per un tempo sconosciuto. Per immedesimarsi in Giuditta, aveva anche voluto guardare la sua stanzetta come se fosse l’ultima volta, come se dovesse anche lui partire, fuggiasco, per un posto del mondo infinito. Provò una forte stretta al cuore e questo gli rese più facile condividere le ragioni di quel pianto discreto, nascosto, rispettoso.
(…) «Pensi che tornerò a casa?» aveva domandato una mattina entrando nella stanza di Giovanni che stava disegnando.
«Certo, bisogna solo che passi questo momento» la rassicurò lui.
«Vuoi che ti racconti come è la mia stanza? Mi aiuta a non dimenticarla.»
E mentre descriveva il suo lettino e le tendine rosa, e la piccola toletta e l’armadio con i vestiti, pettinava dolcemente la sua bambola preferita, che aveva i capelli come lei, neri e ricci.
Passavano le ore insieme così, a raccontarsi i loro mondi, le loro scuole, i loro amici, i loro giochi, le loro paure. Fu Giuditta a far capire bene a Giovanni cosa erano state le leggi razziali.
(…) Giovanni sentì il bisogno di abbracciarla e di stringerle la testa al petto come faceva suo padre con lui, quando voleva consolarlo.
«Tu non ti devi preoccupare. Qui sei al sicuro. Tutto il rione sa che noi siamo cattolici, molti mi hanno visto il giorno della prima comunione, sanno che mamma va in parrocchia. Tu resterai qui finché tutto non sarà finito. Ci sono io a proteggerti.»
Giuditta alzò la testa, non piangeva. Guardò Giovanni negli occhi in un modo che provocò al ragazzo una fitta che non aveva mai provato prima in vita sua. Una fitta che non sapeva localizzare, ma che sentiva profonda, quasi liquida.
«Io non ho solo paura per me. Ho paura per mamma e papà che sono restati in casa. E per la nonna che è tanto anziana. (…)».
(…) Quando mangiavano insieme, soli in casa, pensava che in fondo avere una famiglia propria doveva essere così e che non provava nessun imbarazzo a stare con questa persona che fino a un mese prima non conosceva. Si sentiva grande e protettivo. Non era riuscito a proteggere Mowgli, lo avrebbe fatto con Giuditta. E poi lei era così bella, così dolce.
Una mattina, dopo la colazione, gli disse:
«Oggi devi fare una cosa per me».
E sorrideva con un’aria maliziosa che a Giovanni piacque molto. Lo portò nella stanza dove il ragazzo dormiva e gli sussurrò:
«Oggi voglio che mi fai un ritratto».
Giovanni rimase un po’ interdetto.
«Ma io non ne ho mai fatto uno! Lo hai visto, sono capace solo di disegnare paesaggi o di raccontare con la matita le cose che succedono. Rischio di fare una schifezza e tu sei troppo bella perché possa sciuparti.»
Giuditta arrossì ma non allentò la presa.
«Dài, provaci, ti prego. Ma fallo a colori, non con quel solito grigio.»
E fu così che Giovanni ci provò. (…)
(…) Il camion partì e allora Giuditta corse al suo nascondiglio e si rintanò lì sotto. Non voleva che nessuno la toccasse, piangeva di terrore, senza far rumore. Quando i tedeschi andarono via si fece convincere da Maria a uscire. La madre di Giovanni le aveva detto che forse i genitori erano stati portati via solo per un controllo. La casa era rimasta buia. La bambina aveva perso la nozione del tempo. Maria lo capì e, nonostante fossero le due del pomeriggio, le disse: «Ora dormi, che è ancora notte». E si mise sul letto con lei, stringendola forte. Anche Giovanni si addormentò.
E quando si fece sera chi avesse potuto vedere quella casa silenziosa, avrebbe potuto descrivere questa scena: una donna che dorme impegnata in un abbraccio vuoto, una bambina con ricci meravigliosi che, tenendo una forbice in mano, taglia, con un gesto ripetitivo e meccanico, i lunghi capelli della sua bambola. E, nella sua stanza, seduto, appoggiato al tavolo con la testa sulle braccia, un ragazzo addormentato. Davanti a lui un disegno, che pare appena finito. È il ritratto, a colori, di una bambina che sembra più grande dei suoi anni. Per terra, una gru del meccano a cui manca una ruota e un quaderno di scuola su cui sono scritti il suo nome e il suo cognome: Giovanni Noi, III C.
Fuori, nella piazzetta, un silenzio che fa paura.»
da L’Unità