università | ricerca

“Criteri incerti: riforma mancata”, di Tullio Jappelli e Marco Pagano*

La meritocrazia è una forma di governo in cui i ruoli di responsa­bilità sono affidati in base al merito. Nelle università ciò significa che le risor­se e le decisioni dovrebbero esse­re affidate alle persone che hanno conseguito i migliori risultati nel­la ricerca o nella didattica. A fine luglio, nel distribuire i fondi per il 2009 il ministro Gelmini ha di­chiarato che «per la prima volta in Italia una parte dei fondi desti­nati alle università sono stati asse­gnati sulla base di nuovi criteri di valutazione della qualità». Si trat­ta di 523 milioni di euro, una pic­cola quota (7%) del fondo di finan­ziamento ordinario delle universi­tà, che sono stati assegnati, per un terzo, sulla base di indicatori che dovrebbero misurare la quali­tà della didattica e, per due terzi, sulla base di indicatori relativi alla qualità della ricerca.

L’innovazione è stata salutata da alcuni come un «passo impor­tante » nella direzione della meri­tocrazia, sia pure «con qualche li­mite » (si veda l’articolo di France­sco Giavazzi sul Corriere del 25 lu­glio). È davvero così? Purtroppo no: la riforma non fa affluire più risorse ai gruppi di ricerca più atti­vi e non individua i rami secchi da tagliare negli atenei. Si tratta pur­troppo di un’altra occasione per­duta: presentarla come una rifor­ma meritocratica è una mistifica­zione.

Per capire perché, basta consi­derare gli indicatori usati dal mini­stero per misurare il merito. Gli in­dicatori relativi alla didattica mi­surano soprattutto la regolarità e velocità del percorso di studi, che solo in parte riflettono l’impegno dei docenti e la qualità della didat­tica: per migliorare questi indica­tori basterebbe promuovere tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro preparazione, con buo­na pace di qualsiasi logica merito­cratica. Gli indicatori relativi alla ricerca si basano su una valutazio­ne effettuata dal ministero e con­clusa nel 2006 e sulla capacità del­le università di attrarre fondi di ri­cerca dall’esterno. Ma si è scelto di usare questi indicatori per con­frontare tra loro intere università (per esempio La Sapienza di Ro­ma con gli altri atenei), e non gruppi di ricerca omogenei (per esempio i fisici della Sapienza con quelli delle altre università). In tal modo, come riconosce an­che Giavazzi, non vi è alcuna ga­ranzia che venga premiato l’impe­gno dei singoli gruppi di ricerca. Inoltre si dà all’opinione pubblica e (quel che è più grave) agli stu­denti una mappa distorta del me­rito nell’università italiana. In ba­se agli indicatori di area per le uni­versità medie e grandi, l’Universi­tà di Napoli Federico II ha il mi­glior punteggio per le scienze agrarie e veterinarie, e quella di Bari il miglior punteggio per la fi­sica, anche se nell’insieme i due atenei sono stati penalizzati dalla ripartizione dei fondi approvata a luglio. L’Università di Bologna, che in queste due aree ha ricevuto punteggi inferiori, è invece stata premiata perché ha riportato pun­teggi più elevati in altre discipli­ne.

Questa eterogeneità è molto fre­quente nell’università italiana: esi­stono punte di eccellenza in molti settori, al Nord, al Centro e al Sud, in atenei piccoli e grandi. Una ri­forma che premi il merito deve sa­per individuare e valorizzare le ec­cellenze e indirizzare i fondi verso i migliori dipartimenti dovunque essi siano, piuttosto che attribuire o taglia­re fondi in modo in­differenziato a intere università. Anzi: essa dovrebbe incoraggia­re il merito ancor più quando questo riesce ad affermarsi in uni­versità mediocri. Non tanto per equità, ma per far sì che le cellu­le buone prendano il sopravvento su quelle malate nell’organismo delle università, soprattutto laddo­ve nepotismo e disorganizzazione sono diffusi — come più spesso accade nel Mezzogiorno. Ciò è tan­to più importante in quanto le uni­versità centro-meridionali (già pe­nalizzate dalla ripartizione dei fon­di del 2009) saranno colpite mol­to duramente dai drammatici ta­gli previsti per il 2010. Che alme­no questi non colpiscano alla cie­ca, e non distruggano il merito laddove esso — nonostante tutte le difficoltà — si è fatto strada.

Una riforma meritocratica de­gna di questo nome deve anche sa­pere individuare criteri stabili per la valutazione del merito. I difetti degli attuali criteri fanno invece prevedere che essi saranno anco­ra cambiati nel corso del 2010, in­troducendo un ulteriore elemen­to di incertezza, e generando sco­raggiamento e frustrazione nel mondo della ricerca.
*Università di Napoli Federico II
Il Corriere della Sera 23.08.09