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“Jerry Masslo, 20 anni «immobili» di schiavitù delle braccia nere”, di Alessandro Leogrande

Vent’anni fa, in quella calda estate che precedette la caduta del Muro di Berlino, il barbaro omicidio di Jerry Masslo produsse uno spartiacque nella percezione del razzismo e del «lavoro migrante» in Italia. Un fremito scosse il paese. Il 28 agosto i funerali furono trasmessi dalla Rai; il 20 settembre in Terra di Lavoro fu organizzato il primo sciopero «nero» contro i caporali legati alla camorra; il 7 ottobre un corteo di oltre 200 mila persone sfilò per le strade di Roma. Dopo l’assassinio sorsero e si moltiplicarono le prime associazioni antirazziste e si arrivò, nel 1990, alla legge Martelli sull’immigrazione. Da allora altre leggi (non sempre migliori) sono state promulgate fino alle nefandezze del recente «pacchetto sicurezza», mentre l’universo degli immigrati in Italia è profondamente mutato. Vista da questa prospettiva, il 1989 può apparire un’epoca lontana. Eppure non lo è, perché dopo la morte di Jerry Masslo altri braccianti stranieri sono stati uccisi come lui.
Le nostre campagne si sono globalizzate. Da Villa Literno a Castelvolturno, da Orta Nova a Cerignola, da Vittoria a Sabaudia. Laddove i lavori di raccolta agricola si fanno più duri, e le paghe scendono ben al di sotto di quello che eufemisticamente può essere definito «sottosalario», gli italiani non ci sono più. Ai cafoni di un tempo, pugliesi, lucani, siciliani, si sono sostituiti altri cafoni. Dapprima i braccianti neri e maghrebini. Poi anche quelli dell’Europa dell’Est. La forza lavoro nelle nostre campagne si è globalizzata in un modo tale che quando Masslo venne ucciso era appena intuibile. Ma nella seconda metà degli anni novanta del Novecento e nei primi anni del XXI secolo la mutazione antropologica del bracciantato è diventata sempre più tumultuosa. Tuttavia, pur cambiando le lingue e i paesi di provenienza, non è mutato di una sola virgola il modo di lavorare, né i rapporti di forza che lo regolano. A smistare e inquadrare i braccianti nei campi sono ancora i caporali, a volte italiani, altre volte stranieri, con la loro tracotanza ben voluta dagli imprenditori agricoli che intendono calmierare il costo del lavoro. I braccianti vengono pagati meno di 20 euro al giorno per 10-12 ore di lavoro in condizioni disumane. E la spirale di degrado, violenza, sottomissione continua ben oltre l’orario di lavoro nei casolari fatiscenti in cui sono costretti a vivere e che sono quasi sempre sotto il controllo degli stessi caporali. Il fatto di incontrare un bracciantato più debole di quello italiano del passato (perché privo della tutela delle leggi) ha spinto una parte consistente del nuovo caporalato ad adottare forme di riduzione in schiavitù sinora sconosciute, ma molto più redditizie.
Insomma, la civiltà contadina cantata da Levi e Scotellaro è morta e sepolta; ma non è certo morta e sepolta la violenza contro i cafoni. In questo l’assassinio di Masslo non è uno spartiacque che ha prodotto un’inversione di rotta. Al contrario, è la prima pietra di una lunga serie di aggressioni, in molti casi sfociate in omicidi. Basta ricordare la strage di Castelvolturno del settembre 2008, quando sotto i colpi dei kalashnikov della camorra caddero sei africani. O il caso dei due ivoriani presi a pistolettate davanti al «ghetto» di Rosarno nel dicembre dello stesso anno. Basta ricordare la storia di Vijai Kumar, il bracciante morto di superlavoro, nel mantovano, e fatto trasportare dal padrone lontano dal suo terreno per non correre rischi. Basta ricordare la storia del giovane albanese Hiso Telaray, ucciso in provincia di Foggia nel 1999 dai suoi caporali, per il solo fatto di essersi ribellato. Indagare sulle morti e sulle violenze ai danni dei braccianti stranieri è molto difficile, ci si deve costantemente scontrare contro un muro di gomma. Lo sa bene, ad esempio, la Dda di Bari che ha aperto un fascicolo di inchiesta per la morte sospetta di almeno dieci braccianti polacchi nel Tavoliere, senza riuscire a individuare i colpevoli. Jerry Masslo, che era un militante politico ed era scappato dal Sudafrica dell’apartheid senza trovare in Italia un’accoglienza adeguata, aveva capito perfettamente le leggi che regolano l’anarchia rurale e il rapporto tra italiani e stranieri nel nostro paese. E con parole che non possono definirsi che profetiche lo aveva detto a una troupe del Tg2 che casualmente lo aveva intervistato poco prima della tragica notte tra il 24 e il 25 agosto: «Pensavo di trovar in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo».

L’Unità, 25 agosto 2009

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