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“Il Giappone cambia dopo 50 anni”, di Boris Biancheri

Gli incalzanti sondaggi pubblicati nelle ultime settimane dai grandi giornali di opinione dicevano dunque il vero; le previsioni degli osservatori politici rispondevano dunque alla realtà.

Ieri, ancor prima che cominciasse lo spoglio delle schede, i quotidiani giapponesi avevano pubblicato delle fotografie significative dei due leader rivali: quella di Taro Aso, il primo ministro liberaldemocratico uscente, con le labbra serrate e il viso aggrondato; quella di Yukio Hatoyama, il leader democratico, con un largo sorriso sul viso rassicurante e ottimista.
Per la prima volta in più di cinquant’anni – con l’insignificante parentesi di un esperimento di coalizione durato pochi mesi – il Partito liberaldemocratico, che ha segnato la trasformazione del Giappone postbellico e la creazione di una potenza economica seconda solo a quella americana, esce di scena e l’opposizione storica prende il potere. Il margine della vittoria le assicura piena capacità di governare.

E’ naturale, di fronte a un capovolgimento politico di questa ampiezza, ricercarne le cause nella crisi economica e finanziaria che ha sconvolto il mondo da un anno a questa parte. E non c’è dubbio che la crisi, con le sue ripercussioni sull’economia reale, abbia creato nell’opinione pubblica giapponese, come altrove, un senso di inquietudine e di incertezza che non può non aver influito sulla scelta politica di ieri. Ma la volontà di cambiamento che accompagna la vittoria del Partito democratico del Giappone è più profonda e va più lontano.
È vero che le esportazioni giapponesi, soprattutto quelle verso gli Stati Uniti, hanno subito una flessione, ma non in misura veramente drammatica. È vero che il tasso di disoccupazione è cresciuto, nell’arco di un anno, dal 3,8 al 5,4 per cento; tuttavia si tratta anche qui di cifre che non solo sono modeste rispetto a quelle di altri grandi Paesi industrializzati, ma che riguardano settori limitati della popolazione e non sembrano essere da sole la causa di una trasformazione politica radicale come quella che il Giappone si accinge ad attraversare.

Un mondo senz’anima
Hatoyama, d’altronde, non ha rimproverato ad Aso e ai suoi predecessori (incluso quel Koizumi che anni fa si era rivelato così innovativo e popolare e che poi si è eclissato da solo) di aver gestito male l’economia: gli ha rimproverato e gli rimprovera di aver instaurato un sistema di gestione del Paese che è lontano dalle aspirazioni e dal modo di pensare dei giapponesi, di aver mantenuto il predominio di una cerchia imprenditoriale e di una burocrazia che opera nel contesto di oggi esattamente come operava venti o trenta anni fa. Ciò ha finito col creare negli elettori il sentimento che non vi sia comunque scelta, che il sistema-Giappone, anche perché ha in sé dinamiche obiettivamente positive, sia immutabile e destinato a restare tale perché incarna in qualche modo l’essenza stessa del Paese.
A chi voglia trarre dalla letteratura qualche elemento di giudizio sul bivio di fronte al quale si trova il Giappone odierno, suggerirei di leggere non solo i tanti autori che ci dipingono il Giappone contemporaneo – anche di grande qualità come una Banana Yoshimoto o un Haruki Murakami – ma di ricorrere a un vecchio autore, Osamu Dazai, morto giovane e probabilmente suicida nel lontano 1948. Il suo Non più uomo è la storia di un ragazzo che vede attorno a sé un mondo di regole inviolabili, che nulla hanno a che vedere con le sfide che egli scorge nel futuro, nelle quali non si riconosce, e non sa come ribellarsi. Un mondo sperimentato, perfettamente funzionante e senza anima.

Nulla di rivoluzionario, molta gradualità
Questa mi sembra sia stata la spinta che ha portato tanti giapponesi, soprattutto tra i giovani, a una scelta di cambiamento che a noi parrebbe quasi naturale ma che nella storia politica del Giappone ha un carattere epocale.
Cosa dobbiamo aspettarci dal Giappone di Hatoyama e quali ripercussioni avremo nelle relazioni internazionali? Il Manifesto programmatico del Partito democratico non ha in sé nulla di rivoluzionario. Vi è un accenno di solidarietà sociale, vi è qualche riserva verso la globalizzazione e il libero mercato portato alle estreme conseguenze, vi si trova frequentemente e con diverse accentuazioni la parola fraternità. Una parola, tuttavia, alla quale sappiamo possono darsi diversi significati. Sul piano delle relazioni esterne si riafferma la solidità del rapporto nippo-americano, ma si mette l’accento sulla necessità di una maggiore integrazione asiatica, anche per ciò che riguarda la creazione di una futura moneta unica. Nel cautissimo linguaggio politico giapponese, queste parole sembrano indicare un’apertura verso nuovi equilibri nel continente, ma senza colpi di scena e con molta gradualità.
Quanto al velo di socialdemocrazia di cui il Paese si ammanta, esso sembra leggero e trasparente. Ma lo abbiamo già detto: più dei contenuti che il cambiamento porterà con sé, è il cambiamento stesso che oggi celebriamo.

La Stampa, 31 agosto 2009