economia, lavoro

«Le fabbriche riaprono, ma non per tutti: l’autunno freddo della cassa integrazione», di Pietro Piovani

È settembre, e riaprono le fabbriche. Quelle che possono. Da tutta l’Italia arrivano notizie di stabilimenti che chiudono, operai in cassa integrazione, lavoratori che scioperano e a volte che si arrampicano sui tetti. La situazione più grave forse è quella dell’industria tessile. «Nei primi sei mesi dell’anno le richieste di cassa integrazione sono già state il triplo di quante se ne erano avute nell’intero 2008» segnala Valeria Fedeli, segretaria della Cgil-Filtea. E la cosa grave è che il settore aveva già attraversato la lunga crisi del 2001-2006. Un periodo durante il quale le imprese si sono sì ristrutturate e rilanciate, ma facendo ampio ricorso alla cassa integrazione. Quindi molte di loro adesso non possono farlo più: la legge impone il tetto di 52 settimane di cassa integrazione, di più non si può.
Sindacati e imprese chiedono al governo di superare quel limite. «Siamo riusciti a fare un accordo per la Adelchi», racconta ancora la Fedeli. La Adelchi è un gruppo calzaturiero di Lecce con circa 500 dipendenti. Dopo un anno di cig, i lavoratori sarebbero rimasti a casa senza stipendio; hanno invece ottenuto un altro anno di cassa integrazione straordinaria in deroga. Ma per ora si tratta di un’eccezione. Insiste la sindacalista Cgil: «Noi invece chiediamo al governo una risposta, chiediamo una politica industriale. Lo chiedono anche le imprese. Molte aziende stanno chiudendo. Stiamo andando verso la deindustrializzazione, in un settore che si era appena ristrutturato e aveva saputo rinnovarsi. Persino in gruppi come Zegna si è dovuto ricorrere alla cassa integrazione o ai contratti di solidarietà». Secondo la segretaria della Filtea, la prossima settimana potrebbe essere drammatica, «soprattutto per le imprese “contoterziste”, che costituiscono la metà dell’occupazione nel sistema-moda italiano e che per il 72% hanno dipendenti donne».
Tessili a parte, per le altre categorie la situazione certo non è più incoraggiante. Ad Ascoli Piceno ieri i dipendenti della Manuli Rubber (che produce tubi idraulici) dovevano ricominciare a lavorare dopo le ferie. Invece hanno trovato i cancelli sbarrati. «Motivi di ordine pubblico» è stata la spiegazione ufficiale. È stata ’annunciata la messa in mobilità di 375 dipendenti. L’azienda punta alla chiusura definitiva dello stabilimento ascolano, bisogna ridurre gli organici complessivi dagli attuali 3000 dipendenti a 1.600.
Sempre ad Ascoli c’è la Ciet, azienda di installazioni telefoniche che lavora su commissioni della Telecom. La Ciet sta licenziando nelle sue varie sedi sparse per il Centro Italia. Ad Ascoli Piceno ha attivato la cassa integrazione a rotazione trimestrale, ma i lavoratori protestano perché sostengono si stanno «violando gli accordi ministeriali». Ci sono famiglie da tre mesi senza stipendio; un dipendente con un figlio invalido a carico ha iniziato lo sciopero della fame.
Poi c’è la Lasme di Melfi, in Basilicata, produttrice di tergicristalli per auto, con 174 operai in procedura di mobilità. C’è la Lares di Paderno Dugnano, provincia di Milano, che fabbrica circuiti elettronici stampati: oggi i lavoratori presidieranno l’impianto per impedire che vengano portati via i macchinari.
E poi c’è la Fiat. In Sicilia ieri ha riaperto lo stabilimento di Termini Imerese, dopo un periodo di ferie reso più lungo da una settimana di cassa integrazione. Ma il riposo forzato non si è concluso per i 1.650 operai Fiat (più i 400 dell’indotto): dal 21 settembre ricomincia la cassa integrazione per due settimane.E a Imola la Cnh, produttore di trattori, ha messo 434 persone in cassa integrazione per cessazione di attività. Uno di loro è in sciopero della fame da otto giorni.
dal Messaggero