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“La pace, gli ultimi la fame: le battaglie di una donna vera”, di Susanna Turco

«Teresa era una fiamma, era tutta nella sua chioma di capelli rossi che raccontava bene la sua ostinazione, la sua combattività e anche la sua totale ingenuità. Ci conoscevamo da dieci anni,una amicizia abbastanza profonda e non priva di conflitti, perché era una donna morbida, ma molto ferma. E anche i litigi, non erano mai gravi, perché condividevamo i principi, i valori. A lei l’hanno guidata per tutta la vita, io ero un neofita al confronto. Ma non so, da dove vogliamo cominciare? Dal fatto che Teresa non c’è più direi, mi sembra il dato più concreto».

Vauro è asciutto come le sue vignette. Teresa Strada la ricorda, dice, come se fosse viva, e come se lui stesse solo contribuendo a costruire un articolo,un ritratto. Fuma sigarette a ripetizione, intanto. Un sibilo al telefono, pare che piangano al posto suo. «Una donna, anzitutto questo. Teresa è soprattutto una donna, capace come lo sono le donne di essere ingenua a partire da una profondissima intelligenza e sensibilità. Questa ingenuità, unita a una forte passione, la portava a non capire. Per intelligenza e caparbietà. Come sia possibile, per esempio, che tre quarti dell’umanità non abbiano da mangiare. Come si possa concepire la guerra come una delle scelte possibili. Non lo capiva. E io, che sono un tizio piuttosto incazzoso, devo a lei molto, per la sua ingenuità che mi ha insegnato fino a che punto il valore dell’idea sia legato all’esperienza e al sentimento, piuttosto che al cinismo della politica».

«Mi ricordo che quando eravamo in Iraq e Gino la sentiva per telefono, Teresa veramente non capiva come fosse possibile trasformare un Paese in un mattatoio. A volte, per questo suo caparbio non capire mi faceva anche innervosire, ma è era soprattutto un formidabile strumento per comprendere la mancanza di senso – reale – che hanno la guerra, la fame, la miseria. Si capisce, al confronto con la sua ingenuità, che sono cose incomprensibili: e se non ci fosse un apparato pseudo informativo che ce le fa digerire, saremmo a buon punto sul percorso verso la pace. Ecco, lei non capiva: emi ha contagiato, non lo capisco nemmeno io».

«Non capisco cosa è un clandestino, per esempio. È parola priva di significato: viviamo sulla terra insieme ad altre specie, clandestino potrebbe essere un marziano, uno che non appartiene a questa terra. Invece, ci stanno abituando a contenuti venefici oltre che idioti, ai dibattiti tra destra e sinistra su chi ne ha espulsi di più, su chi è più efficiente a negare un diritto fondamentale». «In questo senso era una formidabile politica. Fuori dai Palazzi naturalmente. Lei, infatti, non capiva come certi valori come la pace, nel suk della politica potessero essere scambiati con la governabilità, per esempio. Non capiva come forze della sinistra, che avevano gridato il no alla guerra, arrivate al governo hanno coperto tutti i “senza se e senza ma” possibili, fino a votare il rifinanziamento di missioni come quella afghana. Ecco, io lo so che quando una persona muore diventa santa, tutti i morti lo diventano, e che ci saranno commossi ricordi di lei anche da parte di costoro. Ma spero che chi li esprime, ricordi anche la sua arrabbiatura rispetto scelte che non si sarebbe mai aspettata, soprattutto da chi a parole si dichiarava più vicino a Emergency oltreché ai suoi valori».

«Ricordo Teresa, ricordo quanto soffriva, anche negli ultimi periodi difficili di Emergency. Ha sofferto molto, ma con gioia. Perché sapeva che quello era un prezzo – alto, certamente – da pagare. Come la consapevolezza che la realtà, della guerra soprattutto, è quella roba lì: i mutilati, i feriti. Soffriva, e questo le dava un calibro, anche per i problemi che aveva come persona, nel privato. Perché non si annullava nel suo lato pubblico, era una donna capace di molto amore, anche come madre, e non so come facesse, sono misteri che solo le donne conoscono».

«Ma forse è troppo presto per ricordarla, perché non ho ancora realizzato che non c’è più. La malattia? La malattia non aiuta mai a prepararsi, perché tutti sappiamo però poi quando accade davvero scatta l’ingenuità di Teresa, che uno non capisce perché. E lei, poi ha affrontato la malattia come la salute: una sfida che ha tentato in ogni modo di contenere, oltre il limite del possibile. Gliel’ho anche detto una volta datti una calmata, ma non c’era niente di eroico. Anzi, farne un’eroina sarebbe ridurla a nulla. Era fatta così, come molte donne».

«Cambia qualcosa per Emergency che lei non ci sia più, certo. Negli ospedali ho imparato a non ragionare più per categorie. I popoli, le vittime di guerra. Piuttosto: le persone, che hanno un nome, una storia. Solo così ti accorgi che sono insostituibili, che il valore sta nella peculiarità della singola vita, non nella categoria. È per questo, fra l’altro, che pagare per una guerra il prezzo di una singola vita non è equo: è troppo. È per questo che anche Teresa è insostituibile. Lo so, sarebbe più facile dire dei valori che resteranno. Vero. Ma non lo è del tutto, perché io domani non potrò sentire Teresa al telefono. Non potrò litigarci. E nemmeno farla bere troppo. Come avevo il brutto vizio di fare, in Cambogia, tanto tempo fa».

L’Unità, 3 settembre 2009