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“Promossi i ricercatori, bocciati i laboratori”, di Massimo Bucchi*

Sorpresa, sorpresa! I nuovi dati delle selezioni per i finanziamenti dello «European Research Council» vedono i ricercatori italiani al primo posto assoluto. Si tratta delle nuove «Starting grants», assegnate alle migliori proposte di giovani ricercatori che hanno conseguito il dottorato da un massimo di 10 anni.
La lista è il risultato di una competizione serrata tra i ricercatori di tutta Europa e nei Paesi associati, che ha ridotto le proposte da oltre 2500 a un gruppo ristretto di 219. Gli italiani, che già avevano ben figurato nelle selezioni precedenti, sono ora al primo posto con 30 progetti prescelti, davanti a tedeschi, francesi e britannici: un progetto su sette, tra quelli passati al vaglio degli esperti, è quindi firmato da uno studioso del Belpaese.
Ma come, si sorprenderà qualcuno, non si ripete da tempo che la nostra ricerca è, di fatto, in agonia, incapace di reggere la competizione internazionale? Dobbiamo allora rivedere da capo stereotipi ormai consolidati? In parte sì e in parte no. Perché i dati che arrivano dallo «European Research Council» contengono una buona notizia e una cattiva, oltre che significative implicazioni di «policy».
La notizia buona, anzi ottima, è che la nostra spesso bistrattata università è in grado di formare, almeno in una fase iniziale, giovani in grado di ben figurare ai massimi livelli. La notizia cattiva, anzi pessima, è legata alla loro attuale collocazione istituzionale. Non a caso, si parla di «ricercatori italiani» e non di «ricercatori di istituzioni italiane».
Se si scorrono i risultati, infatti, questo aspetto emerge drammaticamente. La classifica dei progetti selezionati per Paese dell’istituzione che ospiterà il ricercatore e la ricerca che propone ci vede infatti al quinto posto, con 15 proposte. Dietro Germania, Spagna, Francia e Svizzera e alla pari con Paesi molto più piccoli quali Belgio, Paesi Bassi e perfino Israele; staccatissimi dal capofila Regno Unito. Nessun’altra nazione registra un risultato così positivo abbinato a un tale divario tra i risultati dei propri ricercatori e quelli delle proprie istituzioni. Significa che una buona metà delle proposte made in Italy proviene da studiosi che svolgeranno la propria ricerca fuori dall’Italia. Poco male, si dirà: è un riconoscimento – come detto – della qualità della nostra formazione e un’opportunità di mettersi alla prova in altri contesti: dopo tutto, non si deve pensare alla ricerca in una dimensione europea?
Il punto dolente, però, non è tanto (o non solo) che alcuni ricercatori italiani di valore ci lascino. Il punto è che non siamo in grado, a differenza di altri Paesi, di attrarre ricercatori di valore su scala europea. Delle oltre 40 proposte selezionate che collocano in testa alla classifica «istituzionale» il Regno Unito, meno della metà vengono da ricercatori britannici. Quelle della Svizzera sono quasi tutte di ricercatori di nazionalità straniera e in Finlandia nemmeno uno tra i selezionati ha il passaporto locale. Il risultato conferma in modo eclatante che uno dei principali nodi da sciogliere nella ricerca italiana riguarda proprio le istituzioni e i loro meccanismi organizzativi.
Perché la sostanza è questa: molti giovani e promettenti ricercatori europei (tra cui una bella fetta di italiani), nella fase potenzialmente più produttiva della loro carriera, non vedono nelle istituzioni italiane un luogo appetibile. Perché? Se il problema siano i tempi troppo lunghi di inserimento, le forme di reclutamento non sempre trasparenti e comprensibili (soprattutto per uno straniero) o le infrastrutture di ricerca poco adeguate (o se questi giovani trovino il clima scozzese più gradevole di quello mediterraneo), questo i dati dello «European Research Council» non lo dicono. Certamente, però, ci invitano a fare almeno un’altra riflessione. E’ sull’importanza del contesto in cui le istituzioni si collocano. Siamo certi di poter offrire, per esempio, asili nido, scuole e servizi adeguati alle aspettative di questi giovani studiosi? Di avere un mercato del lavoro abbastanza aperto e fluido da consentire ai loro partner di trovare un lavoro in tempi ragionevoli?
Prestare maggiore attenzione a questi aspetti complessivi potrebbe rendere alla ricerca italiana un servizio migliore di ogni retorica sulla «fuga» e sul «rientro» dei cervelli.

* Università di Trento

La Stampa, 9 settembre 2009