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«La verità non va in prescrizione», di Francesco La Licata

Puntuale come una bomba ad orologeria, è il tema caldo della mafia a far alzare la temperatura politica, ancor più del tormentone estivo degli scandali sessuali del premier. E’ bastata qualche indiscrezione giornalistica (anche incompleta e confusa) sulle nuove rivelazioni di due nuovi testi – il pentito Gaspare Spatuzza e il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino – per provocare la solita reazione furibonda di Silvio Berlusconi contro i magistrati «che mi vogliono incastrare». Il riferimento del presidente del Consiglio è rivolto ancora alle indagini sulle stragi mafiose del ’92 e del ’93 che lo hanno coinvolto (inchieste aperte e archiviate più volte), anche a traino delle vicende giudiziarie del senatore Marcello Dell’Utri, la più «compromessa» delle quali sembra proprio quella che lo vede condannato per mafia, in primo grado, a una pena di nove anni e mezzo.

Sembra, questo, un nervo scoperto destinato a provocare forti scosse ogni volta che l’argomento delle stragi torna alla ribalta. Lo dimostra il vasto schieramento, il vero e proprio fuoco di sbarramento, politico e mediatico, sceso in campo sulla scia delle forti dichiarazioni di Berlusconi. Una reazione a volte irrazionale, come quella di alcuni giornali che sono arrivati a ipotizzare una improbabilissima connection tra Milano e Palermo tutta nelle mani di due pubblici ministeri – Ilda Boccassini e Antonio Ingroia – che neppure la più fervida fantasia riuscirebbe a immaginare alleati su qualsivoglia progetto.

Eppure questa volta c’è qualcosa di diverso nel battage delle reazioni. Mentre la «guerra delle escort» ha offerto il quadro di una maggioranza compatta nella difesa del premier dagli attacchi dell’opposizione, il «ritorno della mafia» sembra aver provocato più di qualche sfilacciamento nel centrodestra. Ha cominciato il presidente Gianfranco Fini, criticato da «fuoco amico» per aver sottolineato, in contrasto con Berlusconi, la necessità di «ricercare sempre la verità». E una sorprendente copertura al lavoro della magistratura è arrivata ieri dal Guardasigilli: «Se vi saranno elementi per riaprire i processi sulle stragi – ha detto a Gubbio Angelino Alfano – i magistrati lo faranno con zelo e coscienza e siamo convinti che nessuno abbia intenzione di inseguire disegni politici, ma solo il disegno di verità».

Inguaribili scettici hanno già individuato nell’intervento del ministro il duplice obiettivo di «smarcarsi» dal premier in vista dell’incerto esito della prossima sentenza dell’Alta Corte sul cosiddetto «Lodo Alfano» e di mettere distanza tra la propria posizione e quella del senatore Dell’Utri (forse anche per via delle cosiddette «incomprensioni siciliane», rispetto all’alleanza locale tra Forza Italia e il governatore Lombardo).

Al di là dei cattivi pensieri, resta l’evidente solitudine di Berlusconi e Dell’Utri, appena alleggerita dalla solidarietà giunta dal presidente del Senato Renato Schifani, che così rompe un lunghissimo silenzio. Solidarietà che non sembra volersi spingere fino ad appoggiare la richiesta di istituire una Commissione parlamentare sulle stragi mafiose, avanzata da Marcello Dell’Utri. È comprensibile, nella logica del senatore (preoccupato che nuove accuse possano confluire nel processo d’appello «messo bene» e in via di conclusione), il tentativo di strappare una materia così incandescente alla gestione della magistratura per consegnarla a un Parlamento a maggioranza di centrodestra. Tuttavia non sembra un progetto semplice: in passato le Commissioni parlamentari sui fatti di mafia non hanno prodotto grandi risultati, e anche quando si è arrivati a importanti valutazioni le relazioni finali sono rimaste quasi sempre lettera morta. E, ancora, non è detto che all’interno della maggioranza esista un fronte favorevole a istituire una Commissione: non sono pochi i politici da non molto usciti indenni dal tunnel giudiziario che certamente non gradirebbero la graticola mediatica provocata da eventuali lavori parlamentari.

E allora? Forse sarebbe davvero il caso, come consigliano parecchi esponenti delle istituzioni, di «lasciar lavorare i magistrati». L’esigenza di una revisione delle vecchie inchieste non è nata per fini politici: gli stessi pm hanno tradito qualche remora prima di ubbidire al dovere che deriva dall’obbligatorietà dell’azione penale. I nuovi testi hanno descritto situazioni in cui imputati innocenti stanno in carcere e colpevoli sono in libertà. Il bene del garantismo, se non è interessato e di parte, impone uno sforzo per porre rimedio a errori del passato, se ve ne sono stati. Verità e giustizia non vanno in prescrizione, neppure in ossequio alla «ragion di Stato».
da La Stampa

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