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“«Respingimenti», la parola alla Corte europea per i diritti dell’uomo”, di Gabriele Del Grande

La Corte europea dei diritti umani deciderà sulla legittimità della politica del governo sull’immigrazione. Il commissario europeo Barrot ha di recente lanciato un appello al rispetto del principio del «non respingimento».

È stato depositato a Strasburgo il ricorso dei ventiquattro rifugiati somali ed eritrei che facevano parte del gruppo dei 227 migranti che furono respinti in Libia il 6 maggio scorso. Fu il primo della lunga serie di «respingimenti» che ha messo l’Italia sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni umanitarie. L’Unità ha già raccontato le storie di alcuni di quegli uomini. Storie che dimostrano senza ombra di dubbio che si trattava di perseguitati politici. Uomini, dunque, che avrebbero avuto il diritto d’asilo, se solo fosse stato permesso loro di presentare la domanda alle autorità del nostro paese. Questa possibilità, invece, è stata negata. Ed è su questo che si fonda il ricorso dell’avvocato Anton Giulio Lana, del foro di Roma.
Fa appello all’articolo 3 della «Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», che vieta la tortura e la riammissione in Paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all’articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all’articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive.

LE VIOLAZIONI
Tutti articoli che, secondo l’avvocato Lana, sarebbero stati violati, dal momento che le persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d’asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso. E sono state respinte in Libia, dove è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E se è vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto vero che i respinti sono stati fatti salire a bordo di unità marittime italiane, che in base all’articolo 4 del codice di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, che vieta espressamente il respingimento in frontiera “nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari” (articolo 10, comma 4, Testo unico sull’immigrazione).
Adesso si dovranno aspettare i tempi della pronuncia della Corte europea. Il caso non rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i 24 ricorrenti sono già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero passare mesi prima che la Corte dichiari l’ammissibilità dei ricorsi e notifichi al governo italiano l’apertura delle indagini.
Per un’eventuale sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che ancora non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il ricorso sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di tempo perché soggetti terzi depositino i loro interventi presso la Corte, in quello che si annuncia come un ricorso chiave per il destino delle politiche di contrasto all’immigrazione nel Mediterraneo.
da l’Unità del 18.9.09

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dall’Unità: «Seicento vittime nel mare libico lo scorso marzo», di Alessandro Leogrande
Erano due navi cariche di disperati. La strage dei migranti. Dalla Libia solo silenzi. La scoperta dei magistrati di Bari durante le indagini su un giro di prostituzione nigeriana.
Il Pm di Bari, Scelsi, ha chiesto la collaborazione dei colleghi africani. A marzo un incontro tra i magistrati per far luce sulla tragedia ma non c’è stato alcun riscontro. I testimoni in carcere o rimpatriati.

Un silenzio inquietante. Dalla Libia non giunge alcuna collaborazione per accertare le responsabilità del terribile naufragio avvenuto a fine marzo. Finora l’unica conferma delle proporzioni dell’ecatombe è data – come riportato su l’Unità di ieri – dalle conversazioni tra un trafficante del sesso residente in Italia e un connection-man in Libia, in cui si ribadisce insistentemente che i boat people affondati quella notte erano due, e non uno, e le persone morte quasi seicento.
La Procura antimafia di Bari ha scoperto per caso il disastro indagando sulla tratta di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione in Italia. Trenta di loro erano a bordo di una delle due imbarcazioni naufragate, insieme a uomini e donne che avevano pagato per il viaggio. Dopo aver iscritto «connection man» nel registro degli indagati per strage colposa, il pm Giuseppe Scelsi ha chiesto, tramite rogatoria internazionale, la collaborazione della magistratura libica nel fornire accertamenti investigativi.
INCONTRO
Ora sappiamo che l’incontro tra magistrati italiani e libici è avvenuto in Italia, nella scorsa primavera, grazie alla mediazione dell’Oim (Organizzazione mondiale delle migrazioni) una delle pochissime organizzazioni internazionali ad avere una propria sede in Libia. Dopo quell’incontro, nonostante la promessa da parte dei magistrati libici di interessarsi al caso, non è pervenuto però alcun riscontro investigativo. Una nube di silenzio sembra avvolgere il naufragio, per altro avvenuto a pochi chilometri da Tripoli, e quindi in acque che non sono di competenza italiana. Con i pochi dati raccolti è difficile ricostruire che cosa sia veramente accaduto quella notte, in che modo il viaggio sia stato organizzato, perché – come si legge nelle intercettazioni – “le barche si siano spezzate in due”. I superstiti, che pure potrebbero fornire una testimonianza molto importante, sono stati rimpatriati o incarcerati nei centri per migranti. All’ambasciata nigeriana di Tripoli (dalla Nigeria provenivano, oltre alle 30 ragazze destinate alla prostituzione, altri migranti imbarcati) rammentano solo la notizia ufficiale in cui si diceva di una sola barca affondata.
CONNECTION MAN
L’unica cosa certa, come confermato dalla Procura di Bari, è che «connection man», benché residente in Libia, è di nazionalità nigeriana, e che i morti, stando alle intercettazioni, dovrebbero davvero essere seicento. Tuttavia «connection man» è ancora a piede libero, e l’inchiesta risulta bloccata. La magistratura italiana non può fare indagini al di là del Mediterraneo. Per essere precisi: non può neanche mettere sotto controllo il telefono di «connection-man», dal momento che quell’utenza è stata rilasciata in Libia. È stato possibile intercettare le conversazioni in cui si parlava del disastro solo perché era sotto controllo l’altra utenza, quella del trafficante residente in Italia. Pertanto ogni accertamento spetta alla magistratura libica. E qui emerge il nodo del problema, che ha a che fare con la natura del potere giudiziario nella Jamahiriyya. Questo non è autonomo, dipende strettamente dal potere politico: in una struttura piramidale dipende direttamente dalla Guida della Rivoluzione. Non è dunque azzardato quindi ipotizzare che a decidere se rispondere o meno alla rogatoria internazionale della procura barese sia proprio l’entourage di Gheddafi.
Il Trattato di Amicizia Italia-Libia sembra soprassedere sul fatto che il partner mediterraneo sia uno stato illiberale. Ma tant’è… Per fare un po’ di luce sul disastro di fine marzo – come chiesto dal deputato radicale Matteo Mecacci – l’unica strada percorribile è forse quella di una commissione parlamentare d’inchiesta sui disastri in mare, a partire da quello che si configura come il più grave naufragio della storia dell’immigrazione verso l’Italia.