partito democratico

“Iscritti-elettori non c’è contrapposizione”, di Piero Fassino

Non credo davvero sia utile, né corretto far credere – come tenta Filippo Penati su l’Unità di ieri – che tra noi vi sia chi non ha considerazione dei nostri iscritti. Non è così e tutti anzi siamo grati a quanti, con passione e generosità, ogni giorno spendono le loro migliori energie per il bene del Pd e del paese.
Un partito vero lo vogliamo tutti. Ma quale? I partiti non sono monumenti di pietra, immutabili nel tempo. Anzi, la vitalità di un partito è data proprio dalla sua capacità di innovare via via la sua forma per essere in costante sintonia con l’evoluzione della società che ha l’ambizione di rappresentare. In particolare nella società dinamica, fluida, aperta di oggi un partito ha bisogno di organizzarsi intorno a due dimensioni che non vanno vissute in antagonismo, ma complementari: gli iscritti e gli elettori.
Serve un partito di iscritti, con base associativa larga; con organizzazioni strutturate e radicate nel territorio o in ambienti sociali; con un’attività quotidiana visibile e punto di riferimento per i cittadini; con programmi e proposte per le domande della gente; con capacità di formazione e selezione di una classe dirigente per gli incarichi di governo locali, regionali e nazionali. Insomma: un partito grande, forte, radicato, strutturato di cui gli iscritti siano protagonisti.
Ma contemporaneamente serve un partito capace di rendere protagonisti anche i suoi elettori, quei milioni e milioni di italiani che ci hanno votato, e vogliono essere rappresentati da noi. Questi elettori devono essere considerati «parte» del partito, dando loro voce e offrendo loro strumenti per concorrere alle scelte del Pd. Le primarie non sono un esercizio accademico di partecipazione, ma uno strumento per attivare energie e passioni e per coinvolgere così una società più ampia. Uno strumento, peraltro, in cui i cittadini ormai si riconoscono, come dimostra il fatto che ogni qualvolta facciamo ricorso alle primarie, la partecipazione è sempre superiore a quella prevista.
Uno strumento utile non solo per selezionare i candidati a incarichi istituzionali,ma anche per eleggere il Segretario nazionale del Pd.Non è indifferente, infatti, l’ampiezza della legittimazione del leader di un grande partito. Anzi quanto più esteso sarà il numero delle persone – iscritti ed elettori – che parteciperà alla sua elezione, tanto più il Segretario del Pd sarà riconosciuto come autorevole dalla società intera. E dal coinvolgimento degli elettori, gli iscritti non vedono ridotto in nessun modo il loro ruolo, che al contrario diventa ancora più importante e riconosciuto in quanto il loro partito divenga riferimento quotidiano di un’opinione pubblica più grande e più larga.

L’Unità, 22 settembre 2009

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“La colpa è non aprirsi al Paese”, di Ivan Scalfarotto

Gli iscritti al PD hanno finora largamente votato per Bersani e per il suo sforzo di costruire un partito dall’identità forte per poi “riaprire il cantiere dell’Ulivo”, come l’ex ministro ha recentemente dichiarato. Tutto il contrario del partito che nasceva intorno al “cittadino elettore” e che voleva dialogare con tutta la società innescando quella “vocazione maggioritaria” che è stata fino ad oggi la nostra parola d’ordine. La costruzione di un’identità forte è un messaggio rivolto tutto all’interno, che compatta i militanti ma che rende più intricati due nodi fondamentali: scava un fossato tra iscritti e “società civile” e rimette in discussione la stessa missione del PD. Il tentativo di rendere più piccolo e agile lo scafo per meglio far fronte ai marosi è tattica comprensibile ma per definizione rinunciataria, adatta più al piccolo cabotaggio che al perseguimento del sogno di un cambiamento radicale. Compattare le truppe nell’orgoglio identitario invece di farsi capire da milioni di elettori è il modo di reagire alle crisi che questo gruppo dirigente ha sempre privilegiato e che ha raggiunto il sublime con la repentina elezione di Franceschini alla segreteria: davanti alla già avvenuta fuga di milioni di elettori dalla stalla democratica si decise allora di sigillare ermeticamente le porte della stessa evitando qualsiasi forma di riflessione sulle ragioni di una così drammatica e repentina diserzione. Quanto alla missione del PD è chiaro che incaponirsi nel fortificare il confine tra gli iscritti e “resto del mondo” stabilendo cosa siamo noi (e, quindi, cosa non sono “gli altri”) solleva la questione della missione futura del PD e fa esplodere l’interrogativo di cosa succederebbe nell’ipotesi in cui gli iscritti scegliessero il proprio segretario e gli elettori decidessero il 25 ottobre che la persona giusta per guidare il partito per cui votano è tutta un’altra. Si tratterebbe della clamorosa formalizzazione dell’avvenuta separazione tra un’intera classe dirigente e un paese che da anni manda inutilmente messaggi disperati come quello di affidarsi inspiegabilmente ma ineluttabilmente alle cure di un miliardario eccentrico. Il problema non è dunque quello di considerare una colpa quella di essere iscritti al PD, come si chiedeva retoricamente Filippo Penati su L’Unità di ieri. Il problema sono i messaggi di chiusura che si mandano alla pancia di un partito in difficoltà incoraggiando la costruzione di un mondo impermeabile agli stimoli del Paese che lo circonda. Non si spiegherebbe sennò come un candidato innovativo come Ignazio Marino possa arrivare facilmente al 34% dei voti nel centro di Milano, mentre a Torremaggiore, in provincia di Foggia, su 312 votanti 305 abbiano scelto Bersani, con una percentuale che avrebbe fatto invidia all’Honecker dei tempi migliori.

L’Unità, 22 settembre 2009