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“Socialismo europeo tra cure e funerali”, di Paolo Franchi

Il tracollo della Spd, caduta per la prima volta, cin­quant’anni dopo Bad Gode­sberg, sotto la soglia del 25 per cento, sembra inverare anche simbolicamente, con qual­che anno appena di ritardo, la tesi avanzata nel 1985 da Lord Dahren­dorf. Forse «il secolo socialdemo­cratico » è davvero finito. Forse non solo in Germania, ma in qua­si tutta l’Europa, i partiti socialisti e socialdemocratici sono davvero in via di estinzione, e abbisogna­no delle cure di un qualche Wwf della politica. Forse la sinistra, o come si chiama adesso, se non vuole che il morto abbranchi il vi­vo, deve davvero, per reinventarsi un futuro, lasciarsi senza troppi rimpianti alle spalle una lunga sto­ria che, quasi ovunque in Europa, soprattutto nel secondo dopo­guerra è, in larghissima misura, la sua storia. O, almeno, la sua storia più importante, e almeno sin qui politicamente e socialmente più produttiva.
Forse. Ma intanto, prima di mettersi a stilare frettolosi atti di morte, è bene stare ai fatti. E i fatti stanno lì a dire che, per quanto grave, e magari potenzialmente mortale, sia il male che li affligge, i partiti socialisti, socialdemocrati­ci e laburisti sono e restano in Eu­ropa, con l’eccezione non partico­larmente felice dell’Italia, la forza di gran lunga più importante e si­gnificativa della sinistra che esiste realmente, e non solo nelle ambi­zioni, o nei sogni, di chi ne vorreb­be una tutta nuova e diversa, ma­gari così nuova, e così diversa, da non potersi neanche più definire sinistra. Persino Oskar Lafontai­ne, salutando entusiasta il succes­so della sua Linke, ha badato bene a chiarire che considererebbe un disastro una crisi distruttiva e au­todistruttiva della Spd: non per una cortesia diplomatica che oltre­tutto proprio non gli appartiene, ma perché sa bene che a pagarne un prezzo terribile sarebbe tutta la sinistra tedesca ed europea, Linke naturalmente compresa. Ma proprio perché della sinistra che c’è le socialdemocrazie rap­presentano la seppur danneggia­tissima architrave, sulle loro spal­le pesa un compito immane. Il compito non solo di rinnovarsi in profondità, ma di ripensarsi radi­calmente, per ritrovare quello che hanno perduto, in primo luogo la fiducia di tanta parte della loro gente, e per avventurarsi su terre­ni sin qui sconosciuti. E di farlo avendo davanti a sé, nella grande maggioranza dei casi, una stagio­ne di opposizione che si annuncia lunga e difficile per partiti che hanno il governo, o almeno una prospettiva ravvicinata di gover­no, nel loro Dna.
Non è detto che ci riescano, an­zi, tutto (non solo il coro assordan­te dei conservatori) sembra parla­re contro di loro, a cominciare dal­la modestia delle leadership, tran­ne il fatto che il socialismo demo­cratico nella sua lunga vita di lea­der mediocri ne ha avuti molti, e di crisi considerate mortali ne ha già traversate più d’una, ma ogni volta, quando tutto sembrava per­duto, ha trovato il modo di lascia­re disoccupati i suoi aspiranti bec­chini, di destra, di centro e di sini­stra. Un ciclo politico, quello in­carnato dal New Labour di Blair e, seppure in misura minore, dalle Neue Mitte, il nuovo centro, di Schroeder si è chiuso, e a scrivere la parola fine ha provveduto una crisi economica e finanziaria che ha colto peggio che di sorpresa tutte o quasi le socialdemocrazie, lasciandole senza parole proprio quando tutte o quasi le loro criti­che di un tempo non tanto al capi­talismo in generale, quanto a un capitalismo senza regole e senza contraltari, sembravano trovare una clamorosa conferma. Ha po­co senso stupirsene, e stupirsi del­la disaffezione e della protesta del proprio elettorato tradizionale, se fino al giorno prima si sono canta­te, con l’ardore dei neofiti, le ma­gnifiche sorti e progressive del turbo capitalismo, dandosi come massimo obiettivo quello di dif­fonderne per quanto possibile i ri­sultati, in termini di ricchezza, nel­la società.
E adesso? La tentazione dell’in­dietro tutta, che andrebbe di pari passo con la caccia al tesoro del­l’identità perduta tra compromes­si e cedimenti, e con una più o me­no marcata radicalizzazione, è comprensibile e persino fisiologi­ca: ma di sicuro una simile svolta non porterebbe troppo lontano. Se è il futuro del socialismo in Eu­ropa che ormai appare radical­mente in discussione, è del sociali­smo europeo del futuro che biso­gnerebbe cominciare a discutere. Possibilmente subito, in ogni ca­so senza attendere passivamente il prossimo disastro annunciato. E iniziando con il chiedersi, senza troppi giri di parole, di che cosa esattamente si sta parlando: del­l’organizzazione del funerale di un illustre vegliardo, o delle tera­pie più indicate per rimettere in sesto un malato grave sì, ma vivo e magari persino più vitale di quanto si creda?

Il Corriere della Sera, 29 settembre 2009