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“Basta con le bestemmie separatiste”, di Giorgio Napolitano*

I protagonisti e le forze motrici del Risorgimento non potevano pensare un’Italia di cui non fossero parte integrante le regioni del Regno delle Due Sicilie (così come le regioni dello Stato pontificio e Roma).

E in quell’Europa nella quale, alla metà dell’Ottocento, tra le maggiori nazioni solo quella italiana e quella germanica non erano ancora riuscite a prender corpo in Stati nazionali, non avrebbe potuto assumere un ruolo effettivo un’Italia che fosse rimasta monca, che non avesse, soprattutto, abbracciato il Mezzogiorno nel nuovo Stato unitario.

E’ questo un dato storico, il cui valore attuale non può oggi sfuggire, e che va ribadito di fronte a certe fantasticherie che si stanno sentendo in polemica con l’esigenza di una forte, inequivoca celebrazione e riaffermazione dell’unità e indivisibilità dell’Italia. Di quell’unità dell’Italia tutta fu, come uomo del Mezzogiorno, il più consapevole e ardente assertore Giustino Fortunato. Egli fu sempre vigile nel cogliere, con ansia ed allarme, il pericolo mortale rappresentato per l’Italia, anche decenni dopo l’unificazione, dall’emergere di tendenze particolaristiche e disgregatrici. A fine secolo, egli vedeva quel pericolo come conseguenza della «corruttela parlamentare delle province meridionali» addebitabile in primo luogo allo stesso governo, e guardando soprattutto alla Sicilia parlò di «bestemmie separatiste». Bestemmie separatiste che gli sembravano trovare allora come non mai «terreno propizio», non essendosi mai prima «proclamato con maggiore impudenza insuperabile il dissidio tra l’alta Italia e l’Italia meridionale» (altre, «bestemmie separatiste» si sarebbero nuovamente sentite, sul finire della Seconda guerra mondiale e anche in tempi più recenti, insieme con non meno «impudenti proclamazioni» della insuperabilità del solco tra Nord e Sud).

Il Mezzogiorno, peraltro, il suo posto nel nuovo Stato unitario se l’era guadagnato sul campo, con un contributo peculiare e decisivo al moto risorgimentale. E pur nel quadro di un’incontestabile egemonia moderata sotto la guida del Piemonte sabaudo, la componente democratica del movimento risorgimentale ebbe un ruolo cruciale nella liberazione dell’Italia meridionale.

La scelta che finì per imporsi della «annessione immediata e incondizionata» – per plebiscito – delle province meridionali, non può condurre a definire il Mezzogiorno come oggetto di una «conquista», anziché soggetto attivo e determinante del processo che condusse all’unità d’Italia, alla fondazione dello Stato nazionale unitario. Il Mezzogiorno si era aperto la strada verso la conquista della libertà con il suo ’48 e con il sostegno all’impresa di Garibaldi; i plebisciti valsero a confermare quella conquista e a creare le basi per la configurazione istituzionale del nuovo Stato.

Naturalmente, le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità potranno ben offrire occasioni e sedi per una rivisitazione complessiva del moto unitario, anche con riferimento ai passaggi più controversi. Nessuno può volere rimozioni o censure, a favore di una rappresentazione acritica o addirittura agiografica.

L’idea della sopraffazione di una parte sull’altra, che ha dato luogo ad una lunga serie di polemiche recriminatorie, ha ceduto il passo alla ricerca delle ragioni per cui il liberalismo moderato ebbe la prevalenza nel momento conclusivo e gli orientamenti federalisti vennero accantonati.

Successivamente, e ben presto, le tensioni tra il governo nazionale e il Mezzogiorno avrebbero ruotato intorno a due poli: la mortificazione delle aspirazioni autonomistiche e la delusione delle attese di sviluppo e di giustizia sul piano economico e sociale. La reazione a condizioni di miseria e oppressione sociale, che già era serpeggiata nel corso della campagna siciliana e meridionale di Garibaldi, sarebbe addirittura esplosa nelle forme estreme di feroce ribellione del brigantaggio che, portando in sé l’impronta e l’insidia del revanscismo borbonico, sarebbe stato sanguinosamente represso.

E in quanto alle istanze dell’autonomismo, innanzitutto siciliano, esse furono negate da una rigida unificazione legislativa e amministrativa secondo il modello piemontese, e da scelte di governo centralizzatrici. L’uniformità fu tuttavia un prezzo che tutto il paese, e non solo il Mezzogiorno, dovette pagare. (Oggi) dobbiamo pur porci degli interrogativi di fondo.

Risultati non trascurabili si sono ottenuti, cambiamenti non lievi per determinati aspetti si sono prodotti nel Mezzogiorno, ma i termini di quell’antico divario, pur oscillando nel tempo, conoscendo a più riprese alti e bassi, e in parte mutando di natura, risultano tuttora drammatici e tendenzialmente stagnanti. E allora, si studino le esperienze dei decenni passati, senza superficiali nostalgismi, senza tentazioni impossibili di ritorno indietro, si formulino ipotesi nuove, partendo tuttavia dalla lezione fondamentale di stampo fortunatiano. E’ cioè la politica generale dello Stato che deve cambiare guardando alla valorizzazione del Mezzogiorno nell’interesse di tutto il paese; e deve l’insieme della società italiana muoversi nello stesso senso: le sue forze produttive, le energie imprenditoriali, non solo le forze politiche, impegnate nel governo della cosa pubblica. Possiamo ben dire, con le parole di Giustino Fortunato: governo e paese «non ignorino di avere, nella questione meridionale, il maggiore dei loro doveri di politica interna». Anche perché «se la nuova Italia non riuscirà a risolvere il problema economico del Mezzogiorno, essa verrà meno a una delle maggiori finalità per le quali è risorta».

Sì, il maggiore dei nostri doveri, oggi, e con ancor maggior forza, è l’affrontare la «questione meridionale» come – ha ragione Galasso – «questione italiana». Le celebrazioni del 150° dell’Unità debbono assumere come impegno centrale quello di promuovere una rinnovata consapevolezza di quel dovere, oscuratasi da troppi anni per effetto dello spegnersi del dibattito culturale e politico meridionalista e dell’esaurirsi di una strategia nazionale per il Mezzogiorno. Ma anche per effetto – non possiamo sottacerlo – del diffondersi nell’opinione pubblica settentrionale di un’illusione di sviluppo autosufficiente, destinato a dispiegarsi pienamente una volta liberatosi dal peso frenante del Mezzogiorno. Sono convinto che si possa ben rendere invece comprensibile e convincente l’esigenza comune di un rilancio delle potenzialità dello sviluppo meridionale come condizione imprescindibile per una rinnovata crescita dell’economia italiana, ben più sostenuta di quella dell’ultimo decennio.

Le celebrazioni del centocinquantenario hanno senso perché l’Italia ha bisogno di più unità, di nuova e più forte coscienza unitaria; l’unità nazionale conquistata un secolo e mezzo fa si consolida affrontando con nuovo slancio la sfida dell’incompiutezza della nostra unificazione.

In conclusione, le celebrazioni del 150° dell’Unità italiana dovrebbero favorire il diffondersi di un clima nuovo, al Nord e al Sud. Da un lato, con l’abbandono di pregiudizi e luoghi comuni attorno al Mezzogiorno e ai meridionali, di atteggiamenti spregiativi che ignorano quel che il Mezzogiorno ha dato all’Italia in varii periodi storici, e in particolare la ricchezza degli apporti della sua intellettualità, delle sue élite culturali essenziali nel concorrere all’unificazione del paese.

Dall’altro lato ci vuole una seria riflessione critica della società meridionale su se stessa. Il bilancio delle istituzioni regionali nel Mezzogiorno non è uniforme, comprende esperienze positive – come quella della Basilicata – ma nell’insieme è tale da farci dubitare che le forze dirigenti meridionali abbiano retto alla prova dell’autogoverno. E pur riservandoci e sollecitando un approfondimento obbiettivo delle ragioni di un bilancio a dir poco insoddisfacente, non possiamo – lasciate che lo dica in questo momento da meridionale e da convinto meridionalista – non possiamo permetterci alcuna autoindulgenza. Non possiamo nascondere inefficienze e distorsioni dietro la denuncia delle responsabilità altrui, e soprattutto dietro le responsabilità dello Stato e dei governi che lo hanno retto. La critica di indirizzi e di comportamenti, di omissioni e di penalizzazioni, di cui il Mezzogiorno ha sofferto è legittima e anzi doverosa, purché seria e fondata, ma non può coprire le responsabilità di quanti si sono nel corso di lunghi anni avvicendati nel rappresentare e guidare le Regioni meridionali e le istituzioni locali, o hanno comunque espresso le forze della società civile.

Essenziale sarà soprattutto uno scatto di volontà, di senso morale e di consapevolezza civile da cui emergano nel Mezzogiorno nuove forze idonee a meglio affrontare la prova dell’autogoverno e della partecipazione al governo del paese.

C’è materia, credo, per un esame di coscienza che unisca gli italiani nel celebrare il momento fondativo del loro Stato nazionale.

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*Estratto del discorso pronunciato ieri dal Presodente della Repubblica Giorgio Napolitano a Potenza
da La Stampa