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«Discorso agli Educatori*», di Dario Franceschini

Un ministro di questo governo, uno di quelli con il più alto indice di gradimento e di esposizione mediatica, qualche giorno fa, parlando dal palco di una festa di partito, si è lasciato andare ad una serie di pesanti e volgari insulti alle opposizioni.
Non è stata una sfuriata improvvisa, frutto, magari, di un incontrollato impeto di rabbia. La cosa, era capitata già qualche giorno prima: stesso linguaggio, stesse volgarità, stessi obiettivi.
Intervistato da un giornalista sul perché di tanta furia, il ministro della Funzione Pubblica ha tranquillamente spiegato che se non avesse usato quel linguaggio, quel tono e quello stile i giornali non si sarebbero accorti dei suoi ragionamenti e non gli avrebbero dato spazio.
Devo confessare che questa giustificazione mi ha colpito anche più della volgarità.
Se questa è la società in cui viviamo, se il circuito che tiene assieme potere e comunicazione si regge su queste regole, se un uomo delle istituzioni ritiene inevitabile aderirvi, che senso ha parlare di educazione?
Educare a cosa?
Partiamo da qui.
Potremmo dire semplicemente che la società italiana è maleducata. Ma detto così, sarebbe un giudizio superficiale.
In realtà, dietro la crosta di questa maleducazione fatta di volgarità, ignoranza, arroganza, c’è il progressivo affermarsi di modelli culturali che rappresentano una forte rottura con quelli tradizionali.
E dentro questa rottura c’è anche la crisi dei soggetti educativi. Di quelle che una volta si chiamavano agenzie formative.
Questi nuovi modelli culturali, sui quali si plasma lo stile di vita oggi dominanti, e non solo delle nuove generazioni, non nascono dal nulla.
Quella rottura ha avuto ed ha tratti comuni in molte società occidentali.
Ma c’è una specificità italiana. E purtroppo in negativo.
Ai caratteri universali di quello che oggi si chiama il mercatismo, con il suo carico di ideologie ultraliberiste, si sono sommati antichi vizi nostrani.
Il quadro è desolante.
Il trionfo di un individualismo che degenera in egoismo.
La religione dell’apparire.
Il culto di un successo che ha come unico parametro il conto in banca.
L’arte di arrangiarsi elevata a filosofia di vita.
Una competizione esasperata che troppo spesso prescinde dal merito. Per cui i furbi hanno sempre la prima fila. E gli onesti restano in coda. Magari anche derisi.
Una perdurante e preoccupante crisi di legalità che è strettamente connessa al tema dell’educazione.
La propensione a sfruttare e a violentare il territorio e l’ambiente, incuranti delle conseguenze.
E’ questa la deformata modernità che si è trascinata appresso la società dei consumi.
Quella che ha trasformato i cittadini in clienti. Le persone in utenti. Le comunità in appendici dei centri commerciali. Lì dove si consumano i sogni e i desideri.
Ma anche le frustrazioni di chi non può. Di chi non ce la fa. Di chi non è abbastanza ricco. Di chi non è abbastanza bello. Di chi non corrisponde ai canoni vincenti. E’ l’Italia che somiglia alle sue televisioni. E che in esse si specchia. Con una particolarità che non è un dettaglio: la perfetta sovrapposizione tra sistema televisivo e sistema politico berlusconiano.
Una originalità che abbiamo sottovalutato, non solo perché non abbiamo fatto, quando dovevamo, una rigorosa legge sul conflitto d’interessi.
Ma anche perché non abbiamo tenuto conto del fatto che quella totale sovrapposizione tra tv e politica, annullando ogni distinzione, finiva per far coincidere lo strumento con il contenuto.
Così la tv è diventata la politica. Il suo modello culturale è il nuovo messaggio politico.
Il suo linguaggio è il linguaggio della politica. Il trash che fa alzare gli indici di ascolto è quello che spinge quel ministro a cercare la popolarità nella volgarità.
A questa politica, a questo sistema di potere fa comodo ridurre l’opinione pubblica ad una platea di spettatori passivi. Di consumatori di sogni e di illusioni a buon mercato. Così non c’è più bisogno di educatori. Bastano i venditori.
“Professore, la saggezza oggi non serve più, è una cosa del passato, mi ha detto un’alunna kosovara che si è inserita presto e bene in questo frenetico supermercato. Oggi bastano i soldi e la tecnologia”. Parole di Marco Lodoli, scrittore e insegnante, contenute in un suo recente libro dedicato alla scuola, “Il rosso e il blu”.
Ecco. La scuola. La destra al governo sembra pensarla più o meno come l’alunna di Lodoli. E dato che i soldi contano più della saggezza, la scuola diventa solo un capitolo del bilancio dello stato.
Un capitolo da cui attingere risorse. Tagli devastanti: in tre anni una riduzione poco meno di 8 miliardi di euro e di oltre 130 mila docenti, tecnici, amministrativi e ausiliari. Il risultato è una scuola in ginocchio. Oberata dai debiti. Senza risorse per garantire le condizioni minime per il funzionamento quotidiano delle singole scuole. Mancano i soldi per le fotocopie, per i sussidi didattici, per ogni cosa.
I tagli sono prima di tutto tagli alla civiltà. Tagli che costringono a ridurre drasticamente il sostegno ai diversamente abili. Tagli che provocano il sovraffollamento delle classi. E quando in una classe ci sono 30, 33, e fino a 41 alunni, come pure sta capitando, i più penalizzati sono inevitabilmente i ragazzi più deboli, quelli che avrebbero bisogno di maggiore attenzione.
Tagli che colpiscono anche la possibilità di intervenire su strutture fatiscenti che mettono a repentaglio la stessa incolumità di chi abita la scuola ogni giorno. E’ possibile tutto questo in un paese civile?
Ma, come sappiamo, la politica del governo si è accanita soprattutto e violentemente contro gli insegnati. E ha prodotto quello che abbiamo definito il più grande licenziamento di massa nella pubblica amministrazione. Non si tratta di numeri. Ma di persone. Di professionalità. Di esperienze. Di donne, che sono la maggior parte, e di uomini che alla scuola italiana hanno dato la loro passione e la loro vita. Si dice precari, quasi a sminuirne il ruolo e l’importanza. Li ho incontrati, girando per l’Italia. Ho conosciuta la loro angoscia e la loro rabbia. Per aver perso il posto di lavoro, certo. Per vedere messi a rischio il loro futuro e quello delle loro famiglie. Ma soprattutto e prima di tutto per aver visto insultata la loro dignità di professori.
Ne ho incontrati due, a Messina. Due donne, davanti al Municipio. Avevano iniziato lo sciopero della fame da una settimana. Mi hanno detto: ci chiamano precari, ma insegniamo da vent’anni. Noi siamo insegnanti. Le ho convinte a mettere fine a quella drammatica protesta assumendo un impegno: la loro battaglia è la nostra battaglia.
Li chiamano precari, perché in questa condizione li ha ridotti il sistema di reclutamento italiano. Un male che viene da lontano ma che quando abbiamo governato avevamo appena cominciato a correggere.
Vi chiamano precari. Ma avete vinto concorsi, conseguito abilitazioni. Avete fatto tutto quello che la legge di questo Paese prescrive per poter essere insegnanti. Eppure adesso un ministro e un governo vi trattano come un problema sociale. Come una categoria cui concedere una neanche tanto generosa elemosina.
Ho partecipato alle vostre proteste. Sono stato al vostro fianco nelle vostre manifestazioni. Quando a Benevento le telecamere dei telegiornali mi hanno ripreso sul tetto, accanto ai precari in lotta, qualcuno ha avuto da ridire. Hanno detto che protestare in quel modo fa perdere autorevolezza. Penso che sia il contrario. L’autorevolezza, la credibilità, la forza di un grande partito si misura accanto alla gente. Lottando contro le ingiustizie. E si perde quando si resta lontano dai problemi. Dalle speranze e dagli interessi.
Noi siamo riformisti. Ma essere riformisti non significa rinunciare ad alzare la voce quando è necessario. E quella degli insegnanti precari è causa per cui battersi con tutte le forze.
Non si tratta di una questione corporativa. Non siamo la stampella di nessun sindacato. Vogliamo, piuttosto, che la politica si occupi della scuola. Che non la lasci morire.
E siamo preoccupati, perché colpire gli insegnanti, come sta facendo la destra, significa demolire uno dei pilastri fondamentali, assieme agli studenti e alle famiglie, su cui si regge la scuola.
Sono bastati pochi giorni dall’apertura dell’anno scolastico per toccare con mano i devastanti effetti prodotti dalle scelte del governo.
Pochi esempi. Non sono state attivate numerose sezioni di scuola per l’infanzia, seppur richieste.
Nella scuola primaria, in molti casi non si è data risposta alla domanda di tempo pieno, che non può essere confuso con un tempo scuola a 40 ore, poiché diverso è il modello didattico offerto. Nel tempo scuola a 40 ore, infatti, c’è un avvicendamento di molti docenti per un numero residuale di ore. Il tempo pieno è invece un modello educativo che si basa sulla condivisione della responsabilità didattica e della compresenza in un tempo disteso di apprendimento.
Anche le toppe che lo stesso governo ha immaginato di poter mettere ad una situazione che fa acqua da tutte le parti non servono a migliorare la situazione dei precari. Ad esempio, la soluzione prospettata con i cosiddetti «contratti di disponibilità» è del tutto insufficiente, poiché se da un lato sostituisce di fatto i limitati ammortizzatori sociali già operanti nel passato, dall’altro non salvaguarda la risorsa docente e al contrario crea discriminazione tra i precari stessi.
E anche la scelta di ricercare accordi con le singole regioni, affinché integrino con risorse proprie quelle già previste per l’indennità di disoccupazione, è solo un maldestro tentativo di scaricare sulle regioni il costo sociale dei tagli.
Serve, dunque, un radicale cambiamento di rotta.
Abbiamo messo in campo le nostre proposte su cui sfidare il governo. Si fermino.
Predispongano subito un piano straordinario, sostenuto da risorse aggiuntive, finalizzato all’abolizione dei tagli e all’immissione in ruolo per docenti e amministrativi, tecnici e ausiliari, così come era previsto dalla legge finanziaria 2007.
Si pensi ad un’indennità di disoccupazione per due anni (pari al 60 per cento della retribuzione nel primo anno e al 50 per cento nel secondo) ai precari il cui contratto non possa essere in nessun modo rinnovato e che hanno lavorato per almeno 180 giorni nell’anno scolastico 2008/2009.
Ci si impegni e a garantire la maturazione del punteggio di servizio nelle graduatorie ad esaurimento.
E ci si adoperi a realizzare un incremento degli organici del personale ATA, per fare fronte ad una situazione di assoluta emergenza per la mancata apertura di molti plessi e sedi scolastiche e per l’impossibilità in molte istituzioni scolastiche di garantire la normale attività amministrativa e didattica di inizio anno scolastico.
Si faccia in modo, poi, che gli eventuali accordi regionali per il precariato rispondano a criteri d’intervento e di applicazione unitaria e, pertanto, che uno schema di convenzione sia discusso con la massima urgenza al tavolo di confronto della Conferenza unificata Stato/regioni. Con l’obiettivo esplicito che questi interventi prevedano comunque garanzie per tutto il personale precario della scuola, sia docente sia ATA.
Si garantisca davvero a tutti il diritto allo studio ed al successo scolastico, con un piano straordinario che assicuri borse di studio, libri gratuiti per i dieci anni della scuola dell’obbligo, mense e trasporti.
Un piano che si prenda cura del successo scolastico dei bambini diversamente abili e svantaggiati e la piena integrazione dei bambini immigrati, contrastando la dispersione e l’abbandono scolastico.
Ci si impegni ad evitare la chiusura delle piccole scuole in montagna e nelle isole minori, dove queste costituiscono presidio pubblico insostituibile per l’educazione dei bambini e per la comunità.
Si metta in campo un piano straordinaria di aggiornamento in servizio dei docenti, partendo dalla scuola media e dal biennio dell’obbligo, con priorità per la matematica, le discipline scientifiche e linguistiche.
Si studi un sistema di valutazione delle scuole e dei docenti, gestito da una «autorità esterna», riguardante docenti e dirigenti scolastici con l’obiettivo di individuare e diffondere le migliori esperienze e di incentivarle e di sostenere le situazioni di svantaggio.
Si avviino d’intesa con le regioni, da subito, sperimentazioni in varie province, per migliorare l’efficacia e l’efficienza della spesa per l’istruzione, lasciando le risorse risparmiate ai territori e alle scuole che le hanno realizzate, premiando cosi le realtà più virtuose.
Ci si impegni a riconoscere l’apprendimento per tutta la vita come diritto di ogni cittadino. Ecco il nostro riformismo.
Ma non si può parlare di riforma senza una riflessione di più lungo respiro sui problemi che impongono il cambiamento. Per capire in che direzione occorre spingere la nostra iniziativa.
Dobbiamo riconoscere che la scuola sta perdendo il carattere di innovazione sociale che ha avuto fino agli anni Settanta. Per ragioni diverse.
Perché è profondamente cambiato il rapporto tra le conoscenze trasmesse a scuola e quelle apprese fuori da essa.
La scuola pubblica è nata come istituzione quasi monopolistica del sapere, in una società povera di altre “fonti” formative. Oggi la situazione è rovesciata: la scuola opera in una società complessa, in competizione con molte altre occasioni e momenti formativi. Le conoscenze che la scuola dispensa, sono, o appaiono, spesso arretrate rispetto a quelle che gli studenti e le loro famiglie ricevono da altre fonti.
Altra ragione. La scuola deve fare i conti con quello che appare un vuoto di autorità. Fino a qualche anno fa la figura dell’insegnante aveva un prestigio sociale di primo piano. Si trattava di uno status che prescindeva dallo stipendio che un professore o un maestro poteva percepire ma che aveva a che fare con la nobiltà della loro funzione. Con il riconoscimento dell’importanza del sapere come elemento decisivo nella formazione e nella vita delle persone.
Oggi la realtà è diversa. In una società abituata a misurare il successo sul livello del reddito gli insegnanti hanno visto ingiustamente consumare il loro ruolo e la loro posizione nella scala sociale in modo proporzionale al valore delle loro retribuzioni.
Ma c’è un’altra ragione più sottile ma altrettanto importante.
Il discredito di tutto ciò che è pubblico, di tutto ciò che è riferibile allo stato, alle sue inefficienze, ai suoi ritardi, alle sue incrostazioni si riversa sulla scuola. E ingiustamente sui docenti che negli anni hanno visto ridotta la loro considerazione sociale anche per questo motivo.
E fa rabbia che la più dolorosa e intollerabile delle offese oggi venga dall’interno dello stato. Da quei ministri che bollano come fannulloni donne e uomini che dedicano la loro vita alla scuola in cambio di meno di 1.200 euro al mese.
Infine un altro elemento su cui riflettere.
Parlo di ciò che significa scuola nella società complessa. Parlo della parcellizzazione ed estensione delle conoscenze che non sappiamo padroneggiare e tradurre in scuola.
Parlo della società multiculturale e del grande tema, al quale ho fatto cenno, dell’integrazione.
Parlo del fatto che sui banchi di scuola sono arrivati, in carne ed ossa, i figli di altri mondi. In questo anno scolastico sono 700.000 gli studenti stranieri. E noi non sappiamo ancora come fare spazio alle loro storie rivalutando e ripensando la nostra.
Se c’è una grave emergenza educativa; se si sta sgretolando il senso delle nostre comunità; se fatichiamo anche solo a condividere un’idea di bene comune come bene di tutti, allora pensiamo da dove è possibile ripartire per cambiare le cose.
La nostra risposta è un Patto Educativo. Un patto che deve coinvolgere tutti. Ovviamente è in campo la scuola, ovviamente sono in campo i luoghi educativi. Ma prima ancora deve essere in campo la città nel suo insieme, la comunità nazionale nel suo insieme: scuola, famiglie, associazioni, parrocchie, sport, università, assessorati ai giovani.
E queste realtà devono operare in rete. Perché passare valori e conoscenze e senso della vita, senso della comunità, senso del futuro, alle nuove generazioni è compito di tutti ed è possibile solo farlo con forte patto di corresponsabilità.
E questo patto educativo va messo in cima alla lista delle priorità della politica. Perché il sapere, la cultura, la cura e la formazione dei nostri figli sono la risorsa più preziosa di cui l’Italia dispone.
L’Italia non ha altre possibilità nella competizione globale che investire sull’intelligenza. Sulla creatività. Sui saperi. Sulla qualità. Sul merito. Sulle potenzialità dei nostri talenti.
Ma è la scuola il luogo in cui questa potenzialità si coltiva e si sviluppa. La scuola è il più importante patrimonio pubblico. Una scuola capace di offrire a tutti le stesse occasioni. Le stesse opportunità. Una scuola capace di preparare il futuro. Il futuro dei nostri figli come nuovi cittadini.
Ma anche il futuro di cose molto concrete: il lavoro, la convivenza, l’integrazione, la prevenzione sanitaria, la pace sociale, la pace religiosa.
Pensiamo a quale importanza abbiano avuto, nella vita di ognuno di noi, quegli anni passati in aula, tra compagni e compagne, per capire, discutere, imparare, crescere. Quegli anni sono una risorsa fondamentale. Essenziale. Sprecarli vuol dire ipotecare una vita. Noi vogliamo un’Italia che traduca in scuole di qualità quella che è da secoli la sua vocazione e la sua forza: essere un paese vivace, ricco di storia e di creatività, di cervelli e di talenti.
Scuole di qualità significa didattica ma anche non lavorare in edifici che cadono a pezzi. Per questo pensiamo ad una cosa molto concreta: l’edilizia scolastica. Anche qui sfidiamo il governo. Hanno proposto il piano casa per rimettere in moto l’economia riattivando il volano dell’edilizia, anche a costo di devastare il territorio.
Noi rilanciamo: un grande piano di manutenzione straordinaria di tutte le scuole italiane, che potrebbe essere finanziato anche attraverso l’esclusione, finalizzata alle scuole, dei vincoli del patto di stabilità che blocca gli investimenti degli enti locali. Mettiamo in cantiere un piano straordinario per la messa a norma degli edifici. Per il risparmio energetico e l’utilizzazione di fonti alternative.
Per la realizzazione di strutture, laboratori, attrezzature didattiche. Un piano del genere farebbe lavorare le imprese ma sarebbe anche un passo decisivo per la ricostruzione di quello spazio pubblico il cui valore sociale va ben oltre la scuola.
La rete delle scuole italiane così ristrutturata potrebbe diventare il più forte presidio dell’idea stessa di comunità. Una rete di edifici pubblici che dovrebbero restare aperti il pomeriggio. Uno spazio aperto, oltre alla didattica, alla vita dei giovani, delle famiglie. Alle iniziative culturali. Alla formazione in senso più ampio. A quella educazione alla cittadinanza e alla legalità che in tante aree del nostro paese continua ad essere un’emergenza. Luoghi privilegiati per ricostruire legami, appartenenza, identità, integrazione.
Del resto, nella nostra storia, questa funzione la scuola l’ha avuta.
Parlo dell’esperienza mia e della mia generazione.
A scuola è cominciato il mio impegno. Prima nel consiglio di classe e poi nel consiglio di istituto.
E già nel linguaggio ideologico di quegli anni ponevamo il tema dell’agibilità politica, dell’esigenze di usare gli edifici scolastici fuori dall’orario di lezione. Del resto a scuola si parlava non solo di noi, del nostro futuro. Di quello che avremmo fatto da grandi. Ma ci si occupava degli altri. Del mondo.
Quella stagione è alle spalle. Per molti il tradimento della politica è stato più forte dei sogni di quegli anni. Ma ogni generazione ha diritto alla sua speranza. Al suo futuro.
Adesso aiutiamo i nostri figli, le nuove generazioni.
E il modo più onesto per farlo è garantire loro niente di meno di ciò che abbiamo avuto noi. E se possibile qualcosa di più.
E allora più scuola. E una scuola migliore, cioè capace di corrispondere alle sfide del nostro tempo.
Tra queste ne indicherei soprattutto una, che per ora rimane fuori dalla prospettiva delle nostre scuole: costruire la nuova identità di cittadini europei.
L’Europa è il nostro orizzonte. E allora anche la scuola va pensata in quella prospettiva.
Lo abbiamo fatto per i diritti civili, per i diritti politici, per le merci, per la moneta, per il parlamento, lo stiamo facendo per le regole della concorrenza e del mercato del lavoro, del fisco, della sicurezza. Lo dobbiamo fare per la scuola.
I Trattati europei su cui si regge la comunità di 27 stati non prevedono ancora una vera politica europea per la scuola e per l’università.
Ma se l’Europa comunitaria non prevede una scuola europea non è però detto che i popoli e i governi non possano insieme, con decisioni multilaterali, decidere di organizzarsi come se le regole ci fossero già.
La mia proposta è che ci si attivi per costruire un Liceo Europeo. Un liceo dove studenti di tutta la Comunità studino allo stesso modo, con il medesimo obiettivo, con la possibilità di scambiarsi il banco e i professori. Mi piacerebbe che tra cinque anni in tutti i paesi europei un nostro figlio possa scegliere di iscriversi al liceo europeo, o ad uno dei suoi indirizzi, sapendo di entrare a fare parte di coloro che pensano europeo e che concepiscono il mondo come ad un solo mondo, comune.
Non un liceo che studia cose in più, ma semplicemente un liceo comune a tutti i giovani europei, che possano frequentarlo anche cambiando nazione nei diversi anni di corso.
Perché nulla più di una scuola comune può aiutare a superare le frontiere che ancora esistono nella mentalità e nella visione del mondo.
E poi sarebbe giusto pensare ad un Erasmus per i giovani tra i 16 e i 18 anni: per cui tutti possano passare un semestre in un altro liceo europeo. Un Erasmus europeo alla portata di tutti, che non sia un gioco o un passatempo per figli di papà, ma il modo per rimettere in moto l’ascensore sociale, per rimescolare le carte.
Scuola, università e ricerca.
Non ci stancheremo di ripetere che è in quella direzione che dobbiamo cercare il nostro futuro. Che solo la trasmissione dei saperi, l’innovazione culturale, la formazione delle capacità delle persone possono sostenere il nostro sviluppo economico.
Poche parole sull’università, tema che toccherò anche in altre tappe del mio viaggio attraverso l’Italia, quando affronterò il tema della valorizzazione dei nostri talenti e quando poi tornerò qui nel Sud per parlare ai giovani.
Anche all’università, come alla scuola, servono soprattutto due cose: risorse e certezze.
E allora anche qui. La prima cosa è cancellare la logica dei tagli.
Per questo abbiamo proposto di destinare 1 miliardo di euro al sistema universitario, di cui 600 milioni per cancellare i tagli e 400 milioni destinati esclusivamente ai più giovani: studenti, dottori di ricerca, ricercatori precari
Risorse significa soprattutto finanziare il merito, la qualità, l’eccellenza. Ci sono molte più realtà di quanto non si creda. Per questo abbiamo proposto una quota del 20 per cento di finanziamento premiale sulla base della qualità dei risultati ottenuti nella didattica e nella ricerca da ciascuna università.
E pensiamo anche alla defiscalizzazione delle donazioni alle università.
Chiediamo, infine, che il finanziamento della ricerca di interesse nazionale avvenga con sistemi internazionali di valutazione.
Ma quanti giovani ricercatori sono costretti a partire perché il nostro paese non investe su di loro?
Lo diciamo da troppo tempo. E’ arrivato il momento di mettere in campo misure concrete. Anche qui abbiamo fatto le nostre proposte in Parlamento.
La defiscalizzazione contributiva per chi assume dottori di ricerca a tempo indeterminato e riduzione dell’IRPEF per gli interessati.
La riduzione del lavoro precario: una sola tipologia di contratto di ricerca e didattica integrativa, riservato a dottori di ricerca per un massimo di sei anni, con coperture previdenziali e assicurative analoghe ai lavoratori a tempo determinato.
Il finanziamento nazionale dei migliori progetti di giovani dottori di ricerca, comprensivo delle spese di personale. I vincitori scelgono l’università in cui condurre la propria ricerca.
Il criterio del merito, come ho detto, deve essere il baricentro di ogni discorso sulla formazione. Merito degli studenti.
E merito dei docenti, per i quali, a tutti i livelli, il criterio della valutazione indipendente, e non dell’anzianità, deve essere la regola organizzativa, la base per la differenziazione delle retribuzioni.
Una valutazione che deve riguardare i singoli ma anche gli istituti e deve diventare il criterio per il mantenimento in vita di corsi e facoltà.
E anche parlando di università voglio inquadrare il discorso in un orizzonte europeo. Perché i nostri figli sono già cittadini dell’Europa.
Nella mozione che accompagna la mia candidatura c’è la proposta per i giovani studenti un anno di presenza all’estero finanziata. Ma anche incentivi a studenti stranieri per studiare in Italia.
Mobilità. E’ una parola che dovremmo abbinare a università.
Mobilità anche interna: uno scambio fra studenti e professori di scuola e università del Nord e del Sud per rafforzare esperienze e culture comuni.
E questa mobilità, può essere la cifra qualificante del nostro sistema 3+2.
Ma questa si realizza favorendo progetti didattici comuni fra le diverse Università, Progetti complementari fra le Università del nord e del sud.
Si garantisce attraverso la proiezione delle università italiane nel contesto internazionale, favorendo soprattutto per i corsi di laurea triennale e magistrale i corsi di lingua inglese per attirare studenti stranieri.
E poi dobbiamo fare in modo che le nostre università si pongano all’interno di progetti didattici a livello internazionale.
In altre parole anziché giocare le università le une contro le altre è il momento di fare e consolidare il sistema, proiettandolo all’esterno, accettando la sfida della competizione globale.
Ecco. Rompere il guscio duro della conservazione, dei privilegi, dei pregiudizi. Recuperare ritardi. Dare stabilità e certezze al nostro sistema educativo.
Non riusciremo a fare tutte queste cose senza la passione civile, il coraggio, e la pazienza degli educatori. Senza la profonda umanità di queste donne e di questi uomini nelle mani dei quali mettiamo il futuro dei nostri figli.
I buoni maestri.
Ne ho incontrato uno, tanti anni fa, proprio qui a Napoli. Mi raccontò una storia a cui non volevo credere. Mi raccontò di bambini di questa città che non avevano mai visto il mare. Bambini che non erano mai entrati in una classe e che erano stati abituati ad avere più paura della scuola che della Polizia. La paura di quei bambini era ed è il terreno di coltura dell’illegalità e del crimine. Ma era ed è anche la cattiva coscienza dello stato, dell’assenza delle istituzioni, delle omissioni delle politiche pubbliche. Di chi quei bambini non doveva lasciare soli.
E questo è il mio impegno: saremo accanto a quei bambini.
Saremo al fianco di quei buoni maestri.
Perché è ora che la politica cambi se stessa per cambiare davvero il Paese.
Senza rinvii, senza promesse per un tempo lontano, ma cominciando subito.
Adesso.

Napoli, 4 ottobre 2009

*il secondo dei Dieci discorsi agli Italiani