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“È scoppiata la guerra civile televisiva”, di Edmondo Berselli

Una volta alla Rai c´era la lottizzazione. Era il metodo più efficace per assicurare l´equilibrio fra i partiti. Un sistema matematico ferreo, una specie di inesorabile manuale Cencelli applicato alle assunzioni e alle nomine di appartenenza, agli spazi e ai tempi per i partiti. Non è il caso di rimpiangere i bilancini e gli equilibrismi di quella che fu definita da Pietro Scoppola la «Repubblica dei partiti».
Tuttavia non si può neppure apprezzare, e anzi è decisamente intollerabile, la guerra civile televisiva che si è aperta di recente, per decisione unilaterale: con il primo editoriale di Augusto Minzolini, il direttore neonominato che ritenne opportuno apparire in video per spiegare il silenzio del Tg1 sullo scandalo della prostituzione di regime (con la giustificazione che non c´erano elementi di rilievo giudiziario, e quindi si trattava semplicemente di “gossip”, come ripetono all´unisono tutti gli esponenti della destra). E poi con il nuovo intervento del medesimo direttore del Tg1 contro la manifestazione di Piazza del Popolo per la libertà di stampa, qualificata come una iniziativa volta a instaurare «un inaccettabile regime mediatico».
Di quale regime mediatico si tratti, in un paese che vede il dominio diretto o indiretto del premier sul sistema televisivo e su un ampio settore dell´informazione stampata, è difficile dire. Tuttavia siamo abituati da tempo alle distorsioni e alle manipolazioni della maggioranza politica. È la tipica tecnica che si riassume nell´immagine popolare del “bue che dà del cornuto all´asino”. Metodo infallibile se ripetuto e ribadito con regolarità, e senza possibilità di smentita. Mentre al contrario sarebbe il caso di parlare della combinazione nefasta fra l´apertura delle ostilità da posizioni di forza e la militarizzazione blindata delle funzioni di potere nella televisione pubblica: per intenderci quella che viene sostenuta in larga misura dal canone, pagato dalla generalità dei cittadini, e che in quanto tale, come ha rilevato ieri anche il comitato di redazione della Rai, deve rappresentare tutti, e qualsiasi posizione, anche quelle di coloro che vanno in piazza a protestare in nome della libertà dell´informazione.
Il Tg1, sempre nelle parole del Cdr, è un organo di informazione «istituzionale». È chiamato a dare voce a tutti. Figurarsi: dalla fine degli anni Sessanta in poi il nostro paese ha conosciuto una quantità impressionante di manifestazioni di massa. Partiti di opposizione e sindacati hanno trovato spesso nella piazza quelle possibilità di espressione che sembravano inibite da una politica bloccata. Se i direttori dei tg “di maggioranza” avessero dovuto intervenire a seguito di ogni protesta sociale o sindacale sgradita all´ispirazione politica del loro editore di riferimento, avremmo avuto un sistema televisivo brezneviano. Invece il regime cinquantennale e dolce della Dc e dei suoi alleati si preoccupava di filtrare la realtà sociale italiana in modo da farne emergere il “pluralismo”: il sistema doveva essere eterno ma morbido, modellato sui numeri della proporzionale, infallibile nella sua capacità rappresentativa.
Non è una inutile nostalgia per le felpate scaltrezze del passato registrare che oggi stiamo assistendo a continue dichiarazioni di guerra dei potenti contro i più deboli, della maggioranza contro la minoranza, del governo contro l´opposizione, senza nemmeno le diplomazie lambiccate della lottizzazione. Non per nulla, Minzolini definisce «intolleranti» tutti coloro, a cominciare dal Cdr e dal sindacato della Rai, che criticano la sua sortita. Ciò significa semplicemente che anche la Rai si è trasformata nello strumento esplicito di un´offensiva politica. E questo avviene con i metodi ampiamente sperimentati dalla destra di casa nostra: individuando i “nemici”, selezionandoli ed esponendoli alla gogna (come per esempio ha fatto il premier alla festa del Pdl, con il suo triplice «vergogna» verso presunte e impresentabili opposizioni che festeggerebbero gli attentati dei Taliban contro i nostri militari a Kabul).
Ora, va da sé che la Rai non è un santuario di virtù. È sempre stata la rappresentazione più completa e precisa del potere in Italia. Forse proprio per questo oggi rischia di divenire l´immagine allo specchio di una politica brutale, che non conosce più mediazioni, né nobili né ignobili, e che anzi usa l´informazione pubblica per alimentare strumentalmente i conflitti. È l´effetto di un sistema maggioritario interpretato in modo violento, di un conflitto d´interessi che non finisce di deformare la democrazia, di una manipolazione mediatica che alla fine umilia l´opinione pubblica.
Tutto ciò costituisce la conseguenza più clamorosa e invasiva del populismo berlusconiano, che si realizza nell´occupazione sistematica di ogni spazio politico e civile. La Rai e i suoi circuiti di potere interno tendono a rappresentare la politica nella sua identità più immediata. Se poi ci si mette la spregiudicatezza degli uomini del Cavaliere, altro che finzioni istituzionali, altro che servizio pubblico, sarà il trionfo dell´interesse privato.

La Republica, 5 ottobre 2009