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“Italia una società bloccata”, di Irene Tinagli

Cosa spinge le persone a studiare, lavorare e impegnarsi ogni giorno per fare sempre un po’ di più? È la speranza di poter garantire a se stessi e ai propri figli un futuro migliore. Una speranza che si realizza quando in un Paese esiste mobilità sociale. È questa prospettiva di crescita personale che fa muovere un Paese, che stimola le persone a imparare, a produrre e a creare ricchezza, non l’obiettivo della pensione o quello di ridurre il debito pubblico.

Eppure, noi ci preoccupiamo solo delle pensioni e di escamotage contabili per far tornare i conti. Legittimo, anche questo è necessario. Ma abbiamo smesso di preoccuparci di ciò che davvero contribuisce alla costruzione del futuro, di quello che i cittadini sperano, sognano, temono. Abbiamo dismesso le loro paure, bollandole come «psicologiche», irrilevanti. Così facendo abbiamo commesso due gravi errori. Primo, abbiamo dimenticato quello che ormai tutti gli economisti sanno: che sono proprio le percezioni e i fattori psicologici che alla fine determinano le scelte e i comportamenti economici delle persone. Se le persone sono convinte che qualsiasi cosa facciano sarà inutile ai fini della loro crescita personale, smetteranno di investire in se stesse, di impegnarsi nello studio o nel lavoro che fanno.

Secondo, abbiamo rinunciato ad analizzare e capire la realtà in cui vive il Paese. Il sentire delle persone non nasce dal nulla, nasce da esperienze concrete e dalle dinamiche sociali ed economiche. È importante cogliere questi fenomeni con tempismo per adottare politiche e interventi adeguati. Un’analisi approfondita di queste dinamiche mostra che l’Italia è in effetti un Paese bloccato e che il rallentamento della mobilità sociale non è una percezione infondata. È invece legato a problemi reali del nostro sistema economico e sociale che si sono acutizzati nel tempo. Negli ultimi anni in Italia sono aumentate le diseguaglianze, e la povertà si è diffusa tra i giovani e le famiglie con i bambini piccoli, tanto che oggi l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di bambini a rischio di povertà. Non solo, ma l’Italia è anche uno dei Paesi in cui è più difficile uscire dal disagio. Questi sono tutti elementi che rendono la nostra società sempre più rigida e difficile da «scalare». Una società in cui la famiglia di origine è sempre più determinante nell’accesso alle opportunità e nella probabilità di successo delle nuove generazioni. Abbiamo uno dei tassi di «ereditarietà» della ricchezza più alti d’Europa: i dati sull’elasticità dei redditi tra padri e figli ci dicono che in Italia circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli, un dato altissimo se confrontato con altri Paesi europei in cui si aggira attorno al 20%.

Cosa significa questo? Significa che i figli dei ricchi tendono a restare ricchi e i figli dei poveri tendono a restare poveri. Non solo, ma è sempre più difficile per i ragazzi nati in famiglie umili avere la possibilità o la forza di riscattarsi. In Italia la probabilità che un giovane con padre non diplomato si laurei è solo del 10%, contro oltre il 40% dell’Inghilterra e il 35% della Francia, per fare un esempio. Questo ci dice che milioni di giovani in Italia stanno gettando la spugna. La situazione è particolarmente allarmante perché non esiste in Italia nessun piano o misura che si proponga di affrontare il problema in modo strategico e sistematico. Ed è proprio questo quello che più di ogni altra cosa ci distingue rispetto ad altri Paesi. Infatti, l’irrigidimento della società è un problema che non riguarda solo noi ma che, in vario grado e misura, caratterizza anche altri Paesi industrializzati come Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Tuttavia in questi Paesi esiste una consapevolezza maggiore verso questi temi, che ha portato all’adozione di misure strutturali volte a recuperare dinamismo e restituire opportunità a ceti sempre più esclusi. Una strategia che in Italia manca completamente.

Ma quali sono le politiche attivabili per riattivare la mobilità sociale di un Paese? Da un lato politiche sociali efficaci per garantire a cittadini di ogni provenienza sociale pari accesso alle opportunità di crescita, dall’altro un sistema economico in grado di riconoscere i meriti e dare modo a chi è bravo di far carriera. I Paesi che stanno cercando di recuperare mobilità sociale intervengono in queste direzioni, soprattutto in quella su cui sono più carenti. Per esempio Inghilterra e Stati Uniti, che tradizionalmente hanno privilegiato i meccanismi meritocratici di mercato, stanno investendo pesantemente in politiche sociali per restituire ai ceti più deboli opportunità di crescere e migliorarsi. L’Italia invece è debole su entrambi i fronti. Ha un sistema economico ancora molto ingessato da protezioni di vario genere, e una spesa sociale dominata per il 60% dalle pensioni che non lascia spazio per lo sviluppo dei bambini, per i giovani, e per tutti quei servizi che aiutano le giovani famiglie a conciliare lavoro e carriera e a crescere. Possiamo continuare ad ignorare il problema e ad evitare le necessarie riforme ed investimenti, ma dobbiamo allora essere pronti a subirne le conseguenze. Conseguenze che sono visibili già oggi, ma che saranno ancora più gravi tra qualche anno. Perché se i dieci milioni di bambini e ragazzi che ci sono oggi in Italia non avranno l’opportunità o la motivazione di studiare, impegnarsi e migliorarsi, non riusciranno ad avere le competenze necessarie per competere su un mercato del lavoro sempre più agguerrito e globalizzato. E se non saranno competitivi loro, non lo sarà nemmeno l’Italia.

Irene Tinagli, docente di Economia delle Imprese presso l’Università di Madrid, illustrerà oggi alle 15,30 il primo rapporto sulla mobilità sociale alla presentazione pubblica della fondazione «Italia Futura», che si svolgerà a Palazzo Colonna, a Roma.

La Stampa, 7 ottobre 2009

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“Gli italiani invisibili”, di Dario Di Vico

Sembra incredibile ma nel Paese della concertazione oggi soffriamo di (poca) rappresentanza: è diventata un bene scarso. Complice la grande crisi scopriamo che interi pezzi della società sono diventati Invisibili. Non hanno santi in paradiso o lobby che li tutelino e le loro rivendicazioni non riescono nemmeno ad arrivare ai piani alti. È questa la condizione dei piccoli imprenditori costretti a far la fila in banca per chieder credito e non chiuder bottega, dei giovani licenziati dai grandi studi di avvocati e architetti che aprono la partita Iva per mancanza di alternative, dei consulenti del terziario avanzato che pagano all’Inps lauti contributi per pensioni che forse non matureranno.

Non c’è da stupirsi quindi se tra gli informatici e i designer dell’associazione Acta il primo partito sia diventato quello dell’astensione, se siano nati in diverse realtà territoriali comitati con il suggestivo nome di «Imprese che resistono » e se un gran conoscitore del mondo delle professioni come il sociologo Gian Paolo Prandstraller sentenzi: «Questo governo non vuole capire che senza le competenze dei professionisti non saremo mai un Paese avanzato ».

Che aria tiri qualcuno nel Palazzo ha cominciato a capirlo e sta giocando la carta della captatio benevolentiae. I convegni sulle Pmi non mancano, le banche stanno attente a fare una comunicazione «amica » verso i Brambilla, i politici locali preoccupati chiamano i ministri sul territorio a render conto della loro azione e persino i parlamentari milanesi del Pd cominciano ad alfabetizzarsi sui problemi delle partite Iva. Tutto dire. Ma non basta. La strategia del sorriso dura lo spazio di un convegno e invece servono soluzioni. Prendiamo, ad esempio, i conflitti di interesse che scuotono il mondo dell’industria. I piccoli sono stanchi di frequentare le associazioni per stringer mani e prender pacche sulla spalla, vogliono diventare partner industriali e non fornitori da tagliare alla prima occasione (magari per mandare il lavoro all’estero).

Il caso dell’obbligo di etichettatura made in Italy è esemplare: i «contadini del tessile» chiedono — con la sponda della Lega — totale trasparenza, non hanno remore ad attaccare gli stilisti e rendono faticosa la mediazione della Confindustria. Anche nell’industria aero-spaziale le piccole imprese non vogliono più che siano le grandi aziende di Stato, in primis la Finmeccanica, a fare il bello e cattivo tempo. Hanno premuto sulla politica e ottenuto dal ministero della Difesa l’apertura di un tavolo di confronto. Un primo passo che nel settore equivale a una piccola rivoluzione. Ma il conflitto più esplosivo riguarda gli incentivi per sostenere la domanda di beni di consumo. La Fiat li ha chiesti di nuovo e dovrebbe ottenerli ma il rischio di una sollevazione da parte degli altri settori è all’ordine del giorno. Dalla Federlegno alle associazioni industriali del Nord-est l’elenco è lungo.

Ottobre, comunque, sarà un un mese «caldo» per la rappresentanza. La Lega si presenta come partito-società (anche in questo riecheggia il Pci) e scavalcando le associazioni degli artigiani ricerca il confronto diretto con i Piccoli. Le cinque organizzazioni del patto del Capranica (Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato e Casartigiani) affrettano i tempi per lanciare la loro nuova iniziativa comune. Giuseppe De Rita, Aldo Bonomi e Paolo Feltrin stanno lavorando per scrivere addirittura una Carta dei Valori del nuovo soggetto di rappresentanza. La Confindustria replicherà a fine ottobre con un importante meeting a Mantova nel quale presenterà un progetto ambizioso: un piano per incentivare le aggregazioni delle piccole e medie imprese. Tanto attivismo organizzativo servirà a tamponare il credit crunch, la chiusura delle fabbriche e a reimpostare su basi nuove il rapporto con gli Invisibili? Molto dipenderà dalle scelte che le organizzazioni che si candidano a ricucire la società faranno. Si limiteranno a competere sul territorio per rubacchiarsi gli iscritti o dovendo scegliere tra gli Invisibili e la politica lenta staranno con i primi?

Sul versante dei professionisti la situazione è ancora più complessa. E la rappresentanza più fragile. Gli Ordini professionali attaccati negli scorsi anni per le loro chiusure e la non volontà di liberalizzare avevano mostrato una buona capacità difensiva. «Per quello che conosco al Nord, sono strumenti efficienti— sostiene Prandstraller— ma con la crisi tutto è destinato a cambiare. Perché stavolta penalizza più gli autonomi che i lavoratori dipendenti». A mettere in difficoltà gli Ordini è la frattura che si sta aprendo tra anziani e giovani perché chi paga il conto più salato sono i giovani avvocati, commercialisti o architetti che rischiano nei prossimi mesi di essere espulsi dalla professione. Senza avere strumenti di tutela che servano ad aiutarli a reggere il colpo e a fornir loro una seconda chance. Sono nate in questi anni numerose associazioni professionali spesso in polemica con gli Ordini ma per un motivo o per l’altro non sono riuscite ad avere la taglia necessaria per farsi ascoltare. La stessa considerazione vale per il Quinto Stato dei professional e consulenti milanesi. Il welfare per loro è una tassa aggiuntiva del 26%, non quella formidabile istituzione democratica che assicura a operai e impiegati, ai Visibili, cassa integrazione e buone pensioni.

Il Corriere della Sera, 7 ottobre 2009