attualità

“La forza della democrazia”, di Ezio Mauro

Era dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un Paese dove è saltata l´intercapedine liberale, e l´estremismo del potere viene benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell´autonoma e libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell´instabilità istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto d´onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni dopo, in uomo di Stato.
Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una condanna. Prima che la grande mistificazione d´abitudine cali sui cittadini dal kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.
Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo, combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione, com´è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l´articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per questa ragione – e siamo al metodo – se si vuole sottrarre alla legge il Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale, e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli articoli 3 e 138 della Costituzione.
Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente dei doveri: semplicemente, e com´è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva provvidamente sospeso. Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto – e non è cosa da poco – torna da oggi uguale per tutti.
Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è lex, anzi “non c´è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla terra”, come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica. In una formula – aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia – si potrebbe dire che il Capo dell´esecutivo ha in questo caso usato il legislativo per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.
La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell´autorevolezza politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso questa procedura d´eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale, prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l´autonomia.
Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà. Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati, nell´Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori dall´equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo status nuovissimo di “primus super pares”, vige ancora la Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora, anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale elettorale in più.
E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al popolo di destra – aizzato irresponsabilmente – come un uomo di parte (“sapete tutti da che parte sta”) in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di “sinistre”, “rossi” e “comunisti”: per concludere con il titanismo spaventato di un urlo (“Viva l´Italia, viva Berlusconi”) che rivela la concezione grottesca di un Premier che vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte, poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo, rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono designati altera l´equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il Quirinale e la Corte. E siamo solo all´inizio.
Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne, come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli scandali dell´estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com´è di una vicenda di verità e di libertà. Non è la Corte che lo denuda: è l´incapacità politica di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi e piccoli vengono al pettine e l´unica reazione è la furia contro certi giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di un´assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.
Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri: quando non c´è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia è il dispotismo.

La Repubblica, 8 ottobre 2009

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Segnaliamo sull’argomento i seguenti articoli

“A tutela di tutti”, di Concita De Gregorio

«È una sentenza sorprendente», dice Alfano ministro di Giustizia. Sarà sorprendente per lui. Non per i milioni di italiani che ancora credono nella giustizia nonostante la provvisoria presenza di Alfano. Un ministro passa, la Costituzione resta. Questo ci dice la sentenza di ieri: tranquilli, la Costituzione resta. La legge è ancora uguale per tutti. Più di sessant’anni dopo è ancora a quei signori i cui volti sono ingialliti nelle foto che dobbiamo dire grazie: ai padri costituenti che avevano previsto tutto senza immaginare niente. Quella era politica. Saremo capaci, prima o dopo, di ritrovare l’umiltà, la ragionevolezza, la lungimiranza, la passione civile, l’amore per lo Stato dei nonni che hanno costruito la democrazia che oggi abitiamo violentandola come fosse una palestra di periferia, teatro di privati interessi e corporali bisogni? La nostra Costituzione è nata dalla Resistenza: è stata scritta per tutti, anche per quelli che alla Resistenza non hanno partecipato. Ieri come oggi.
«La Consulta è di sinistra», dice Berlusconi presidente del Consiglio. Bisogna avere pazienza, non paura né rabbia ma pazienza. Vede comunisti dappertutto. La Consulta non è di sinistra, è composta da giuristi che hanno a lungo esaminato le carte, a lungo hanno discusso e infine hanno democraticamente votato: nove contro sei. I soldi, il potere che ne deriva non comprano tutto.
Anche questa è una buona notizia per il Paese intero, berlusconiani compresi: arriverà un giorno in cui non ci sarà più chi paga e anche loro dovranno ringraziare che le regole comuni siano state da altri conservate intatte.
«Porteremo il popolo in piazza», dice Bossi l’azionista di maggioranza del governo. Questo il vero pericolo. Che si voglia trasformare una battaglia per il rispetto delle regole in una guerra civile. Non c’è da scendere in piazza coi forconi, nessuno cada nel tranello. Non è questa una vittoria di nessuno contro alcuno. È un argine, una prova di equilibrio. È un passaggio solenne a tutela di tutti. Restiamo nel solco tracciato dai Padri. Esercitiamo la parola e il pensiero, facciamolo ancora, mettiamo in minoranza coi fatti, coi progetti, con la proposta politica chi cerca di trascinare il paese nella polvere e nel fango. Questa parola si è sentita ieri: guerra. Non siamo in guerra, invece. Siamo un grande paese capace di reagire con gli anticorpi della democrazia alla deriva e alla tentazione dispotica. Ritroviamo il desiderio di aver cura di noi stessi, non lasciamoci distrarre dalle ronde dai dialetti e dal colore, oggi verde, delle camicie. Abbiamo sconfitto quelle nere, il verde non può far spavento.
Del povero Mavalà Ghedini («La Corte rinnega i suoi principi») non sarebbe da dire se non per compiangere un dipendente del Sovrano costretto a giocare quindici parti in commedia, un uomo di legge che rinnega lui sì il mandato del popolo in favore dell’interesse del suo principale. Un triste spettacolo. La Corte sta lavorando anche per lui, pazienza se gli risulta impossibile capirlo. Lo capiranno i suoi e i nostri figli, sarà scritto nei libri di storia. In prima pagina trovate un numero dell’Unità del ’47. Conservate quello di oggi, servirà tra vent’anni.

L’Unità, 8 ottobre 2009

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“Le disgrazie sono di sinistra”, di Massimo Gramellini

Dopo il proclama del Capo, il quadro è finalmente chiaro. I magistrati sono di sinistra, e questo già si sapeva. La tv pubblica, eccetto Topo Gigio, è di sinistra. Il 72% dei giornali è di sinistra (non il 71 e nemmeno il 73: il 72, l’ha detto Lui). La Corte Costituzionale è di sinistra, il Quirinale è di sinistra, gli arbitri in genere sono di sinistra, e anche i vigili che danno le multe sono di sinistra, i professori che rifilano 4 a mio figlio sono di sinistra, il vicino di casa che appesta il pianerottolo con la sua frittura è di sinistra, la signora che mi ha scippato il parcheggio è di sinistra, come la Regina di Biancaneve, Veronica Lario e la Costituzione: tutte di sinistra.

La sveglia alle sette è di sinistra, la barba da radere è di sinistra, il caffè amaro è di sinistra, i calzini bucati e gli ingorghi al semaforo sono di sinistra, il capufficio odioso è di sinistra, la moglie che mi ricorda le commissioni da fare è di estrema sinistra. Il Superenalotto è di sinistra, altrimenti vincerei. Gli stranieri, i comici, i miliardari e i gatti neri sono di sinistra. Le escort sono di sinistra, ma solo quelle che chiacchierano, naturalmente. Cavour era di sinistra, come Montanelli e Barbarossa, del resto. Fini è di sinistra e pure le previsioni del tempo, se segnalano pioggia. Persino io, quando non digerisco la peperonata, divento di sinistra. Da noi l’unica disgrazia che non sia di sinistra è la sinistra.

P.S. Viva l’Italia, viva Berlusconi! (anche questo l’ha detto Lui).

La Stampa, 8 ottobre 2009

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“L’immunità illegittima”, di Giuseppe D’Avanzo

SE SI mette la sordina alla rituale filastrocca di Berlusconi (giudici comunisti) e alle intimidazioni di Bossi; se si lasciano in un canto le stralunate favole dell’avvocato Ghedini (processi evanescenti) e si legge – lontano dal rumore – la decisione della Corte costituzionale, si può dire che è finita come doveva finire.

Come si sapeva sarebbe finita, perché non c’era nulla di più scontato che la bocciatura della legge immunitaria che l’Egoarca s’era apparecchiato. La Consulta dichiara illegittimo l’articolo 1 della “legge Alfano” – legge perché è del tutto improprio e abusivo parlare di “lodo” che è un arbitrato condiviso, mentre quella legge è al più un arbitrio. Nell’art. 1 si legge che “i processi penali nei confronti del (…) presidente del Consiglio (è il solo tra le quattro alte cariche dello Stato che ha di questi grattacapi, ndr) sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione”.

La previsione viola, dicono i giudici, due principi costituzionali perché “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge” (art. 3) e “le leggi di revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni (…)” (art. 138). Ora è in discussione qui non il che cosa, ma il come. La Corte ha già riconosciuto, nella bocciatura della “legge Schifani”, che è di “interesse apprezzabile” l'”esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche”. Detto in altro modo, i giudici costituzionali non ritengono avventato (incostituzionale) che si voglia offrire – nell’interesse dei governati – un “ombrello” protettivo a chi governa il Paese, presiede lo Stato e il Parlamento. D’altronde fino al 1993, la Costituzione ha previsto l’immunità per i parlamentari (potevano essere inquisiti, processati o arrestati solo con l’autorizzazione della Camera di appartenenza).

Dunque, va bene un’immunità che tuteli la “serenità” di chi governa, ma attraverso quale percorso legislativo la si deve garantire? L’iter deve essere quello ordinario che può essere combinato con una maggioranza semplice o quello più complesso che impone al Parlamento due deliberazioni a distanza di tre mesi e una maggioranza dei due terzi, senza la quale la legge – prima della sua entrata in vigore – può essere sottoposta a referendum popolare? Era questa la questione che doveva decidere la Corte.

Ecco, la Consulta ha concluso (e non è una sorpresa) che per assicurare serenità a chi governa, si deve correggere la Costituzione e quindi non è sufficiente una legge ordinaria. L’obiezione che governo e maggioranza oppongono, con furore, a questa conclusione è: potevate dircelo prima; ne avete avuto l’occasione, non lo avete fatto: perché? Esplicitamente, il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, protesta: “È incomprensibile come i giudici costituzionali abbiano potuto spendere, nel 2004, pagine su pagine di motivazioni senza fare alcun riferimento alla necessità di una legge costituzionale. Tale argomento, preliminare e risolutivo, è inspiegabile che venga evocato quest’oggi”. L’accusa di Alfano, che riecheggia anche nelle proteste di Berlusconi (“Sono stato preso in giro”), non ha fondamento.

Come hanno spiegato, più di un anno fa e in ogni occasione utile, cento costituzionalisti con un pubblico appello. Nel 2004, alla Corte fu sufficiente la constatazione preliminare dei difetti di legittimità della “legge Schifani” per affondare quello “scudo”, “assorbito – si leggeva nella sentenza – ogni altro profilo di illegittimità costituzionale”. Era, è la frase chiave di quella sentenza. Oggi chi protesta la dimentica o preferisce dimenticarla. La Corte non rinnega principi da se stessa già enunciati, come tende a dire la maggioranza, perché, nel 2004, “si limitò a constatare che la previsione legislativa difettava di tanti requisiti e condizioni (la doverosa indicazione dei reati a cui l’immunità andrebbe applicata, il doveroso pari trattamento dei ministri e dei parlamentari nell’ipotesi dell’immunità del premier e dei presidenti delle due Camere), tali da renderla inevitabilmente contrastante con i principi dello Stato di diritto”.

Ma le osservazioni critiche della Consulta non pregiudicavano la questione di fondo: “la necessità che qualsiasi forma di prerogativa che comporta deroghe al principio di eguale sottoposizione di tutti alla giurisdizione penale debba essere introdotta necessariamente ed esclusivamente con una legge costituzionale”. Ripetiamolo allora. Si può attenuare il principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma soltanto se si riscrive la Costituzione e, per farlo, bisogna muoversi nel solco delle regole previste dalla revisione costituzionale, perché una legge ordinaria non è idonea a introdurre nel nostro ordinamento una disposizione che affievolisca il principio che ci rende tutti uguali davanti alle legge, anche se la volontà popolare ti ha spedito a Palazzo Chigi.

Le polemiche che infiammano ora la scena politica non parlano dell’esito – prevedibilissimo perché già scritto – della decisione della Corte Costituzionale, ma di un conflitto tra il primato del diritto e i diritti dell’investitura popolare. Berlusconi ritiene che, sostenuto dalla maggioranza del Paese, debba essere liberato da ogni controllo e reso immune da un potere che immagina sottordinato, subalterno. Egli si ritiene l’unico e solo depositario (proprietario?) del “vero e reale diritto del popolo” e, in quanto tale, gli deve essere concesso di agire e di decidere anche contra legem.

Il suo potere non deve trovare ostacoli, non deve essere limitato o condizionato dal contesto politico e istituzionale, dal Parlamento, dai contrappesi, dalla stessa Costituzione e dai suoi garanti. Egli è il popolo, è l’Italia e grida “Viva l’Italia, viva Berlusconi”. Questa identificazione gli consente – lo pretende – di liberarsi di un passato oscuro, di avere mano libera nell’esercizio del comando e della decisione. Quando, imputato nel processo Sme, il 16 giugno del 2003 finalmente si presentò in un’aula di Tribunale non per essere interrogato (sempre si è avvalso della facoltà di non rispondere), ma per rendere dichiarazioni spontanee, Berlusconi esordì con la stessa prepotenza di queste ore.

Disse al presidente del Tribunale che gli ricordava che la legge è uguale per tutti, “Sì, è vero la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani”. È quel che dice e ripete oggi e pretenderà che diventi reale, domani. Ci aspettano giorni tristi.

La Repubblica, 8 ottobre 2009

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“Oltre ogni limite”, Marcello Sorgi

Silvio Berlusconi ha pieno diritto di annunciare che andrà avanti, anche dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il lodo Alfano e aperto la strada alla ripresa dei processi penali che lo vedono imputato. Quel che invece non può dire, come ha detto ieri, purtroppo, a caldo dopo la sentenza, è che la Corte ha deciso così «perché è di sinistra» e fa parte di uno schieramento che vuole soggiogare il Paese.

In questa che definisce «una minoranza», composta, sono parole sue, dal «settantadue per cento della stampa» e dai «comici che prendono in giro il governo», Berlusconi ha incredibilmente inserito il Capo dello Stato: alzando così a un livello insopportabile lo scontro istituzionale, e dimenticando che Napolitano aveva firmato il testo del ministro di Giustizia Alfano, proprio in base al verdetto con cui la Consulta aveva chiesto prima una serie di aggiustamenti per il precedente lodo Schifani.

Stavolta invece la Corte ha scelto una via più chiara: cassata la legge ordinaria, contingente e rappezzata sul testo del vecchio lodo, già sottoposto del resto a questione di costituzionalità, è come se avesse suggerito di ricorrere a una nuova legge costituzionale, per eliminare alla radice i problemi fin qui rivelatisi insolubili. Per un governo che poggia su una larga maggioranza, vanta una forte capacità «di fare» e nell’altra legislatura in cui era stato al potere era riuscito a cambiare quasi metà della Costituzione, non dovrebbe essere difficile, in tempi ragionevoli, realizzare un simile obiettivo. Né temibile affrontare il referendum confermativo previsto dall’articolo 138, che seguirà. Un referendum, è vero, che fu negativo per le riforme costituzionali introdotte dal centrodestra tra il 2001 e il 2006, ma stavolta si risolverebbe in un plebiscito su Berlusconi. E come tale potrebbe contare sul favore popolare, che ogni giorno il premier misura nei sondaggi e non si stanca di ricordare.

Anche senza conoscere le motivazioni di principio della Corte, si può provare a ragionare su alcuni dati concreti, che probabilmente non saranno stati estranei al ragionamento dei giudici della Consulta. Benché convinto di essere vittima di una persecuzione, Berlusconi infatti è arrivato a governare con fino ad 11 processi pendenti sulla sua testa. Ha sopportato condanne poi trasformatesi in assoluzioni, s’è salvato talvolta con le prescrizioni. E tutto ciò non gli ha impedito di vincere o perdere le elezioni, e tornare per la terza volta a Palazzo Chigi, a prescindere dalla pressione giudiziaria che si addensava su di lui, e in qualche caso avvalendosene anche come strumento di propaganda. Anche adesso, per spiacevole che sia visto il tenore delle accuse, quello che lo attende a Milano non è un patibolo. È un normale procedimento, che sarà celebrato da un collegio diverso da quello che ha posto la questione di costituzionalità ed andrà incontro a un termine di prescrizione nel febbraio del prossimo anno.

Inoltre, a riproporre in Parlamento la questione dell’immunità in generale, e non solo di quella che lo interessa, il premier potrebbe pure avere qualche sorpresa, se non da tutta, da settori dell’opposizione. L’immunità, si sa, era già prevista dalla Costituzione all’articolo 68. Ma ciò che i nostri Padri costituenti avevano inserito nel testo della Carta, a garanzia della libertà e della sicurezza della politica, fu modificato frettolosamente dai loro successori sull’onda di Tangentopoli e della cosiddetta «rivoluzione italiana».

Da allora in poi, e sono sedici anni, l’equilibrio tra i poteri (governo, Parlamento, magistratura) è cambiato. Si è passati dalla protezione assoluta di cui (grazie anche a frequenti amnistie che si concedevano) godevano parlamentari e uomini di governo nella Prima Repubblica, ad una minima, spesso insignificante, di cui i politici debbono oggi vergognarsi e alla quale si risolvono a rinunciare frequentemente, sotto la spinta di una gogna pubblica senza regole o limiti.

Non è un mistero che una situazione del genere non comprenda il solo Berlusconi, né il suo schieramento in particolare e neppure solo i parlamentari. Piuttosto, ormai, l’insieme della politica nel suo complesso, in un sistema in cui moltissimi, eletti o no, cittadini semplici o eccellenti, sono accusati, inquisiti, intercettati, ma si dimettono, o non si dimettono, dai loro incarichi pubblici, in pratica solo quando gli va, e sempre indipendentemente da processi, condanne e assoluzioni. Problemi come questi, non a caso, hanno riguardato in passato, tra gli altri, anche Prodi e D’Alema. Che hanno reagito con una diversa varietà di reazioni, ma con più rispetto per la magistratura e senza fare casi personali.

Certo era troppo aspettarsi che la Corte Costituzionale, occupandosi del caso dell’imputato pubblico numero uno Silvio Berlusconi, affrontasse anche una questione che la politica, fin qui, nei lunghi anni della transizione italiana, ha provato inutilmente a risolvere, e di fronte alla quale forse s’è arresa. Ma non c’è dubbio che il problema rimane.

La Stampa, 8 ottobre 2009

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“Lezione alla politica”, di Michele Ainis

Lì alla Consulta avranno bisogno di un ombrello. Sentenza politica, ha subito osservato il sottosegretario Bonaiuti. La Corte è ormai al tramonto, non è più un organo di garanzia, risponde a logiche partitiche anziché costituzionali, ha aggiunto di rincalzo il costituzionalista Gasparri. E intanto Bossi, tanto per sedare gli animi, evoca i rumori della piazza. Prima d’avventurarsi in un commento a caldo su questa calda decisione, sarà bene perciò mettere nero su bianco due premesse.

Uno: ogni sentenza di costituzionalità ha carattere politico. Lo capirebbe anche un bambino, dato che le pronunzie costituzionali hanno sempre una legge per oggetto, e dato inoltre che la legge rappresenta il veicolo della decisione politica. Due: non è la piazza a decidere i principi che regolano la nostra convivenza. Se lo Stato di diritto s’affida a un corpo di custodi, è perché la piazza a suo tempo mandò a morte Gesù per salvare Barabba, perché la stessa piazza durante il secolo ventesimo acclamò feroci dittatori, perché insomma le Costituzioni liberali presidiano un sistema di valori, e li sottraggono al dominio delle folle.

Meglio posare l’occhio, dunque, sulle ragioni giuridiche di questa decisione. E sia pure con qualche approssimazione, dato che fin qui ne abbiamo in mano l’osso, non la polpa. Difatti in ogni sentenza – e specialmente in una sentenza di legittimità costituzionale – è la motivazione che illustra gli argomenti di cui si nutre poi il dispositivo. È la motivazione, quindi, il metro di misura che ci consente d’esprimere un giudizio ponderato, una critica, un plauso a mani aperte. Noi però non la conosciamo, perché non è ancora stata scritta. Conosciamo un comunicato di tre righe, che ci informa sull’invalidità del lodo Alfano per contrasto con gli articoli 3 e 138 della Costituzione. Il primo enunzia il principio d’eguaglianza; il secondo detta il procedimento di revisione costituzionale. Che significa questo doppio richiamo?
Significa anzitutto che la Consulta ha respinto soluzioni pasticciate, che molti davano per certe nei corridoi dei palazzi romani.

Dalla prima all’ultima parola
No, il lodo è illegittimo dalla prima all’ultima parola, non c’è spazio per interventi di restauro. Ed è illegittimo non tanto per ciò che dice, bensì per come lo dice. Non perché elargisce una speciale immunità alle maggiori cariche istituzionali del Paese, bensì perché confeziona il dono in una legge ordinaria, anziché in una legge costituzionale. Tale massima si poteva già vedere in controluce nel più diretto antecedente della pronunzia sul lodo Alfano, ovvero la sentenza n. 24 del 2004. Ma averla posta a fondamento di quest’ultima decisione ha un valore straordinario, e per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché riafferma il primato del principio d’eguaglianza sulle volubili scelte del legislatore. Le immunità della politica infliggono altrettante deroghe all’eguaglianza di tutti i cittadini, ma la deroga è ammissibile purché sancita dalla Costituzione stessa o da una fonte normativa equipollente. Vale per i parlamentari (art. 68), per i consiglieri regionali (art. 122), per il governo (art. 96), per il Capo dello Stato (art. 90). Solo il procedimento di revisione costituzionale può introdurre un limite alla parità fra i consociati: può farlo perché è un procedimento che coinvolge anche le opposizioni, e perché quando si modificano le regole del gioco devono essere d’accordo tutti i giocatori.

L’insegnamento di Hans Kelsen
Non la sola maggioranza, dunque; o altrimenti non senza interrogare gli elettori attraverso un referendum, come stabilisce per l’appunto l’art. 138 della Carta. Risuona qui, del resto, l’insegnamento di Hans Kelsen, il più grande giurista del Novecento: ogni vizio materiale della legge (derivante dal suo contenuto) è in realtà un vizio formale, dipende dalla scelta della legge ordinaria anziché costituzionale.
E c’è poi una seconda ragione, forse ancora più importante della prima. Gli avvocati del presidente Berlusconi avevano puntato tutte le fiches sull’espansione del suo ruolo in questo torno d’anni: un primus super pares, secondo l’immaginifica espressione di Pecorella. Se dunque nella Costituzione materiale ormai abita un Premier, la Costituzione scritta è diventata carta straccia. E se il Premier ha tutt’altro spessore rispetto ai vecchi presidenti del Consiglio, serve un’immunità tagliata su misura. Ma che cos’è la Costituzione materiale? Una nuvola che cambia forma a ogni soffio di vento, un fantasma che nessuno può toccare con le dita. Rigettando quest’impostazione, la Consulta ha altresì affermato la supremazia della Costituzione scritta, della legge scolpita su tavole di bronzo. E ha infine impartito una lezione – questa sì, non scritta – alla politica: rispettate la Costituzione, o altrimenti correggetela nelle dovute forme.

La Stampa, 8 ottobre 2009

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“Decisione fondata sul principio dell’uguaglianza”, di Massimo Brutti

Quali sono le differenze tra le due leggi che nel 2003 e nel 2008 sono state approvate dal Parlamento con la finalità di sospendere o di non far iniziare i processi penali nei confronti di alte cariche dello Stato? E perché anche la seconda legge è caduta? Proviamo a spiegarlo, Il così detto «lodo Schifani» prevedeva che non potessero essere sottoposti a processo il Presidente del Consiglio ed altri esponenti di vertice delle istituzioni. La Corte dichiarò incostituzionale la legge, anzitutto perché menomava il diritto alla difesa, che l’articolo 24 della Costituzione qualifica come«inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Anche volendo, gli imputati eccellenti non avrebbero potuto rinunciare alla sospensione e sottoporsi al processo, come qualsiasi altro cittadino. Inoltre la legge sacrificava il diritto della parte civile, cioè di chi è danneggiato dal reato e perciò nel processo penale esercita l’azione per le restituzioni e il risarcimento del danno che ha subito. Infine, la possibilità di avvalersi del «lodo» per un tempo indefinito era in contrasto col principio della ragionevole durata del processo. Il secondo testo corregge il primo. La sospensione non è ripetibile all’infinito e non va oltre il tempo di una legislatura. Ad essa l’interessato può rinunciare. Inoltre, l’azione della parte civile, sganciata dal processo penale, va avanti da sola. Ma vi è un aspetto decisivo, non trattato nella prima sentenza, poiché i motivi che ho appena indicato erano già sufficienti all’annullamento, e che ora viene in primo piano. Queste norme introducono una prerogativa a favore di quattro titolari di funzioni politiche. Una deroga rilevante e clamorosa al principio costituzionale dell’uguaglianza: «Tutti i cittadini … sono eguali davanti alla legge”. L’unica via per una simile deroga sarebbe una norma di rango costituzionale, da approvare con un procedimento “rafforzato”: conferma del voto di entrambe le Camere a distanza di tre mesi, maggioranza qualificata (di due terzi o assoluta, main questo caso c’è il referendum popolare). Insomma, l’uguaglianza giuridica è un bene troppo prezioso perché di esso possa disporre una maggioranza semplice in parlamento. Del resto, la Costituzione già prevede un sistema tassativo di “immunità” per chi svolge funzioni politiche e non lo si può ampliare con una legge ordinaria. Se è questa la valutazione della Corte, a me sembra che essa sia rigorosa e fondata. Contribuisce all’effettività di un principio essenziale del nostro ordinamento. Si sentono già – mentre scrivo – reazioni irose ed un crescendo parossistico di attacchi alla sentenza provenienti dal capo dell’esecutivo. Credo sia necessario il massimo impegno per tenere la Corte costituzionale fuori dal conflitto politico che attraversa il paese. È questo l’appello del presidente della Repubblica. È una preoccupazione diffusa nella cultura giuridica italiana e dev’essere un obiettivo quanto più possibile condiviso dalle forze politiche. Il «ritorno ai princìpi », di cui abbiamo un bisogno vitale, comincia da qui: dal rispetto per le autorità imparziali, dal rispetto per la giurisdizione e dunque per le garanzie fondamentali a tutela dell’uguaglianza. Isoliamo gli irragionevoli.

L’Unità, 8 ottobre 2009

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