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“CDA proibito per donne e stranieri*”, di Andrea Goldstein

Emma Marcegaglia e Diana Bracco entrano nella classifica delle cinquanta donne-manager più potenti nel mondo stilata dal Financial Times. Basta questo per sostenere che la situazione delle dirigenti d’azienda è migliorata in Italia? Non proprio, perché nei consigli di amministrazione italiani il numero delle donne resta desolatamente basso. E non solo: anche i consiglieri stranieri sono molto pochi. Eppure, gli studi empirici indicano una relazione positiva significativa tra diversità del board e performance societaria. E allora ben vengano le quote rosa.
Nell’autunno del 2007 nessuna italiana compariva nella classifica Top 25 businesswomen in Europe del Financial Times . Nella FT Top 50 women in world business del 25 settembre 2009 appaiono invece Emma Marcegaglia e Diana Bracco: un fatto che sembrerebbe suggerire enormi passi in avanti in un intervallo assai breve. (1)

IL PROFILO DEI CONSIGLIERI
Sfortunatamente, la composizione dei consigli d’amministrazione delle società del Mib30 mostra che la situazione rimane critica. Su 466 cariche consiliari, soltanto undici sono ricoperte da donne. (2) In ben ventidue società non siede nessuna donna, mentre soltanto in due – Fininvest e Saipem – il peso femminile supera, di poco, il 10 per cento del consiglio. Marina Berlusconi, occupa due incarichi (Fininvest e Mediobanca), dunque le amministratrici sono solo dieci. Hanno però un profilo demografico ed educativo interessante: sono più giovani (meno di 52 anni di media per le otto amministratrici di cui disponiamo dell’età) e qualificate (otto laureate sulle nove per cui abbiamo il dato) rispetto alle élite italiane in generale. Altrettanto interessante notare come in questo piccolo campione ci sia una donna straniera, Ana Maria Botìn, che siede nel consiglio di Generali.
L’altra caratteristica della governance delle grandi società italiane è infatti la presenza ancora modesta di amministratori stranieri, in particolare tra gli indipendenti. Il dato grezzo di 67,5 posizioni sempre su 466 cariche appare significativo, ma è fuorviante: in alcuni casi, soprattutto nelle banche (Carige, Mps, Mediobanca), gli amministratori non-italiani rappresentano gli interessi di azionisti esteri e si può sostenere che pertanto non apportano un contributo addizionale di esperienza e di contatti rispetto a quello che già consegue all’internazionalizzazione della proprietà. In altri, invece, la presenza di qualche manager straniero in posizioni apicali è il riconoscimento dell’elevato grado di internazionalizzazione produttiva, vuoi per la natura sui generis della proprietà (una famiglia italo-argentina per Tenaris, Goldman Sachs per Prysmian), vuoi per il ruolo delle acquisizioni all’estero nel permettere la crescita dimensionale (Lottomatica, Saipem e UniCredit, ma anche Generali). Amministratori indipendenti stranieri sono presenti in maniera significativa soltanto in Fiat – Roland Berger, René Carron e Ratan Tata – e Telecom – sempre Roland Berger e Jean Paul Fitoussi. (3) Oltre a Berger, tedesco, sono tre gli amministratori stranieri che siedono in più di un consiglio: il francese Antoine Bernheim (Generali e Intesa Sanpaolo), il tedesco Dieter Rampl (Mediobanca e UniCredit) e il tunisino Tarak Ben Ammar (Mediobanca e Telecom). In compenso, nei trenta principali consigli d’amministrazione italiani non si corre il rischio di incontrare un cinese, un brasiliano, un sudafricano, un giapponese e, con l’eccezione di Tata, un indiano. Fortunatamente, Franco Bernabè siede nel board di PetroChina, la maggiore società al mondo per capitalizzazione.
Perché questa situazione dovrebbe essere fonte di preoccupazione? Perché numerosi studi empirici trovano una relazione positiva significativa tra diversità del board, con presenza di donne, di stranieri e di determinate minoranze, e performance societaria. (4) Ma anche perché questi dati confermano che la scarsa mobilità delle élite italiane è un problema non solo generazionale, ma anche di background: tutti uomini, se possibile italiani.

QUOTE ROSA IN CDA?
C’è bisogno di un intervento di policy? In teoria solo la presenza di un fallimento di mercato lo può giustificare e quindi non quando i benefici vengono appropriati da azionisti abbastanza oculati da nominare board eterogenei. Alcuni benefici possono però non essere appropriabili, visto che il talento circola (o quantomeno dal punto di vista del benessere collettivo sarebbe desiderabile che circolasse) e una società per azioni deve necessariamente mettere in conto che una buona amministratrice può cambiare lavoro a un dato momento. Poche donne in cda equivale a ridurre l’insieme di risorse e di talenti a cui il paese può attingere per il proprio sviluppo.
Da ciò la sempre controversa questione delle quote rosa, tema che le recentissime vicende della giunta di Taranto dimostra essere di grande attualità anche nel mondo politico-amministrativo.
Una proposta di legge dell’onorevole Lella Golfo prevede di ripartire gli amministratori da eleggere in modo da assicurare l’equilibrio tra i generi. L’equilibrio si intenderebbe raggiunto quando il genere meno rappresentato, che in pratica è quello femminile, ottiene almeno un terzo degli amministratori eletti. In Francia un recente rapporto suggerisce di imporre quote in modo da portare la presenza femminile nei cda al 40 per cento entro sei anni, una misura che la sottosegretaria alla Famiglia considera come un “male necessario”. (5) Anne Lauvergeon, secondo il FT la terza businesswoman più importante al mondo, si è detta convinta della necessità di imporre quote, che pure precedentemente aveva definito umilianti. (6)
Se la critica che il meccanismo delle quote lede il principio del merito ha delle basi, numerosi studi mostrano l’importanza di fattori extra-economici – non necessariamente contrari al merito, ma sicuramente da esso distinti – nella selezione e socializzazione delle elite. Finché il gap tra l’Italia e il resto d’Europa, per non dire del mondo, rimane così ampio, vale la pena considerare l’introduzione di quote per le candidature femminili.

(1) Anche Fortune ha una classifica simile e nell’edizione 2008 vi appariva Marina Berlusconi.
(2) Si sono considerati soltanto i consigli d’amministrazione e si sono sommati consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione nelle banche che hanno adottato il sistema duale.
(3) Sergio Marchionne è conteggiato come straniero a metà, data la sua doppia cittadinanza. In realtà anche Paolo Rocca, che pure ha soltanto un passaporto italiano, può essere considerato come straniero a metà visto che ha passato una parte importante della sua vita in Argentina. Nella misura in cui anche la residenza all’estero è importante, vanno menzionati anche i casi di Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales, consiglieri indipendenti in UniCredit e Telecom.
(4)Per esempio Carter, Simkins e Simpson (2003), “Corporate Governance, Board Diversity, and Firm Value,” The Financial Review, 38/1; Virtcom Consulting (2008), Board Diversification Strategy: Realizing Competitive Advantage and Shareowner Value; Gregoric, Oxelheim, Randøy e Thomsen (2009), Corporate governance as a source of competitiveness for Nordic firms, Nordic Innovation Centre.
(5)“Parité économique: pour Mme Morano, les quotas sont « un mal nécessaire »,” Le Monde, 17 luglio 2009.
(6)“Areva chief in U-turn on female quotas,” Financial Times, 26/27 settembre 2009.

* Le posizioni espresse nell’articolo sono attribuibili esclusivamente all’autore e non coinvolgono in nessun modo l’Ente per cui lavora.

LaVoce.info, 13 ottobre 2009