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“Mamme d’azienda”, di Cinzia Sasso

Producono al top anche se fanno part-time. Sono più motivate. Per le imprese le madri possono essere un buon affare. Una ricerca svela perchè. Le donne che fanno figli non sono un costo per i datori di lavoro. Semmai sono una risorsa. Lo dice uno studio della Bocconi: una maternità “pesa” sui conti dell’impresa solo lo 0,23% in più. E al suo rientro la dipendente supera i colleghi per efficienza e produttività. A una condizione: che il sistema diventi più flessibile. Ciò che incide di più dal punto di vista economico è l’organizzazione di chi resta in ufficio. A tracciare la strada sono le buone pratiche introdotte da alcuni grandi gruppi. Il cliché è duro a morire. La ragazza, curriculum impeccabile, master all’estero, conoscenza perfetta di tre lingue straniere, si presenta al colloquio di lavoro: «Lei è brava, ma è giovane: poi vorrà fare dei figli…». Ed ecco che mentre l’ingegnera diventa viola di rabbia, e pensa che tutto può fare meno cambiare di genere, il capo del personale scarta il suo nome e passa oltre. Peccato, sarebbe stata perfetta, ma un maschio è più sicuro, almeno non ci sarà da fare i conti con quello che le aziende temono di più: la maternità. La marcia delle donne verso la conquista del mondo del lavoro finora si è sempre infranto contro questo scoglio: la gravidanza, i figli, le assenze, soprattutto i costi che questo comporta per l’impresa. Ma ora dalla Bocconi arriva il contrordine. «Sono solo pregiudizi da abbattere», dice Simona Cuomo, dell’Osservatorio sul Diversity Managment.

«La maternità non è un costo, è un’opportunità», aggiunge Alessandra Casarico, professore di Scienza delle Finanze. «La maternità incide solo per lo 0,23 per cento sui costi del personale», conclude Chiara Paolino che insegna Gestione delle risorse. È una ricerca con un prestigioso marchio di fabbrica, la Bocconi, che si incarica di demolire quelli che definisce luoghi comuni e di rispondere in modo inaspettato alla domanda su quanto costi alle imprese la maternità: poco più di niente. Anzi, arriva ad aggiungere: la maternità per le aziende può essere un beneficio più ancora che un costo. La ricerca ha interrogato responsabili delle risorse umane, capi e madri lavoratrici ed ha concluso che bisogna fare i conti con tre inossidabili stereotipi, smentiti però dalla realtà. Il primo è che non è vero che in Italia la legislazione sulla maternità sia tra le più protettive e generose. La seconda è che non è vero che più le donne lavorano meno fanno figli: anzi, sono i Paesi con la maggior partecipazione al mercato del lavoro a essere i più fecondi. Il terzo è che il costo “vivo” della maternità è indiretto e molto contenuto. La conclusione, quindi, è che non bisogna aver paura delle donne: e che pratiche come la flessibilità, il part time, l’uso del pc da casa, il telelavoro, consentono di trarre solo i benefici dalla presenza di personale femminile e di sfruttare appieno le loro competenze.

Eppure nel mondo del lavoro il retro pensiero è sempre che la dannazione delle donne sia quella di diventare madri. E poco importa che la Banca d’Italia stimi che una crescita dell’occupazione femminile significhi un aumento del 7 per cento del Pil; né che istituti di ricerca come Catalyst o McKinsey affermino, dati alla mano, che il valore aggiunto delle donne – il loro stile di direzione, l’attenzione alle persone, la gestione delle relazioni, la prevenzione dei conflitti – porta le imprese ad avere risultati migliori. Perché poi, lì, al momento dell’assunzione, o quando si deve decidere una promozione, il dilemma è la futura maternità e tutto quello che comporta. Solo che “tutto quello che comporta” è una frase senza senso, uno stereotipo che va abbattuto. Simona Cuomo è la coordinatrice del gruppo che il 28 ottobre presenterà alla Bocconi il lavoro di ricerca portato a termine dall’Osservatorio del Diversity Managment. «Bisogna – dice – sfatare il mito che aleggia intorno alla maternità. Un’idea pervicace ma che è frutto di una cultura arretrata e di pregiudizi. Il nostro studio dimostra che invece il problema non esiste, che l’incidenza della maternità sul costo complessivo del lavoro è bassissima». Cuomo, che è anche madre di tre figli, racconta che la prima cosa curiosa è che in realtà le imprese non sanno quanto pesa la maternità sui costi complessivi: si sa quanto costano le fotocopie, i post-it, i telefoni; ma nessuno prima aveva mai calcolato quanto costa una mamma.

Il luogo comune vuole che si pensi che la legislazione italiana è tra le più favorevoli alle donne, e dunque tra le più penalizzanti per le aziende. Peccato che non sia vero: in Paesi come la Danimarca è possibile restare a casa per sei mesi al cento per cento dello stipendio e in Norvegia i mesi retribuiti di assenza sono addirittura dieci. Dice Alessandra Casarico: «L’astensione per maternità va vista nel suo complesso, e quando si fanno i raffronti con gli altri Paesi si parte sempre da premesse sbagliate. In Spagna, ad esempio, o in Svezia, è previsto anche un congedo di paternità: anche quello è un costo che riguarda i figli, ma non viene addebitato per forza soltanto alla madre». Limitare i costi della maternità all’universo femminile riduce le possibilità di crescita del Paese: «Le donne hanno dei talenti che vanno sfruttati, decidere di tagliarle fuori dalle carriere perché fanno i figli significa rinunciare a una fetta di competenze».

Chiara Paolino ha quantificato (per la prima volta) il costo della maternità: «Ed è – afferma – un costo ridicolo. Una quota che corrisponde allo 0,23 per cento dei costi diretti e indiretti del personale. Quello che pesa è piuttosto il costo dovuto alla gestione dell’incertezza e alla riorganizzazione del lavoro di quelli che rimangono». Variabili, però, che niente hanno a che vedere con l’esborso di denaro, quanto con l’organizzazione del lavoro. «La donna che rientra torna come risorsa più ricca, più efficiente, più produttiva. Se nelle aziende passasse questo pensiero positivo, porterebbe a un arricchimento generale». Che non sia solo teoria, che trovare una soluzione positiva al binomio maternità e lavoro non sia solo un tema di responsabilità sociale ma anche di sviluppo delle imprese, lo racconta Chiara Bisconti, responsabile delle risorse umane di San Pellegrino-Nestlé, anche lei madre di tre figli. «Noi – racconta – abbiamo impostato una serie di strumenti che consentono di far marciare insieme i bisogni delle donne e quelli dell’azienda: il risultato è un effetto virtuoso, perché ad esempio le donne che chiedono il part time riescono a fare in sei ore quello che normalmente si fa in otto, con il risultato di un risparmio di costi».

Tutt’altre le storie che raccontano le donne d’azienda. M.C. è appena rientrata al lavoro dopo una maternità. Fino al 2005 era una giovane manager in ascesa, con un budget importante da amministrare e un team di 8 persone. Adesso, a 38 anni, con tre figli e con la voglia di riprendere là dov’era rimasta, si ritrova a non avere più un ufficio, né un ruolo. «Mi trattano – si indigna – come fossi trasparente, ma questa è un’ingiustizia che non posso lasciar passare. Trovo mostruosa questa mentalità per cui altri ti impongono di scegliere tra maternità e carriera». R. S., top manager di una media company, ha addirittura dovuto cercarsi un altro lavoro. «L’ostacolo – spiega – non era mia figlia, erano i miei capi che hanno deciso per me: secondo loro siccome ero diventata madre non avrei più potuto essere un capo affidabile». L’82% delle donne ritiene che la maternità costituisca un ostacolo alla progressione in carriera e il 54% degli italiani pensa che la maternità e i figli siano i limiti principali alla realizzazione professionale delle donne. E queste convinzioni devono pur nascere da qualche dato di fatto. Forse, però, è ora di cominciare a cambiare. Come stanno facendo alla Bracco, dove si ottimizza il lavoro delle madri con orari personalizzati; o in Microsoft, azienda che ha inventato gli orari family friendy. O alla Shell, dove seguono passo la mamma per tutto il suo periodo di assenza.
La Repubblica 14.10.09

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Ma tocca alle aziende essere più lungimiranti, di Chiara Saraceno
Ecco perché è miope rinunciare a metà delle risorse disponibili. Eppure sono poche le realtà in cui si incoraggia il ritorno delle madri in tempi rapidi. Una malattia arriva all’improvviso, l’assenza per maternità invece è prevedibile con largo anticipo. Ogni giorno in una azienda ci sono più assenze per malattia o permessi vari che non per maternità. Sono inoltre poche le donne che vanno oltre al primo figlio. Eppure troppo spesso le aziende italiane considerano la possibilità che le lavoratrici vadano in maternità come una iattura imprevedibile, che mette in crisi l’organizzazione del lavoro e impone costi sproporzionati. Per questo se ne difendono preventivamente cercando, se possono, di non assumere donne, o collocandole in posizione marginale, non facendo fare loro carriera. E quando queste sciagurate, ascoltando i propri desideri e anche le calde esortazioni dei demografi e dei politici, decidono di fare un figlio, il datore di lavoro considera questa decisione una prova definitiva di scarso attaccamento al lavoro.

Ciò non avviene solo nelle aziende piccole, con pochi dipendenti, ove un’assenza per maternità può costituire un serio problema organizzativo, anche se non irrisolvibile, stante che ci sono diversi mesi per mettere a punto le soluzioni necessarie. Avviene anche, se non soprattutto, nelle aziende grandi, come sa chiunque si sia occupato di pari opportunità e si è trovato di fronte a datori di lavoro e responsabili del personale che parlano delle assenze per maternità, ma anche dei ritorni dal congedo di maternità, come di eventi imprevedibili, disturbanti, fuori da ogni controllo, quindi da evitare il più possibile. Sono ancora molto frequenti – nel civile e industrializzato nord – i casi di donne che sono state caldamente incoraggiate a non tornare al lavoro una volta terminato il congedo. Così come continua la pratica delle lettere di dimissioni in bianco.

Sono poche le aziende che viceversa incoraggiano il ritorno delle madri al lavoro e lo accompagnano con iniziative di aggiornamento oltre che di flessibilità oraria e organizzativa. Questo atteggiamento delle aziende può avere effetti controproducenti sulle lavoratrici stesse, inducendole, quando possono, a ritardare il più possibile il ritorno al lavoro e a investire in esso il meno possibile, per proteggersi da frustrazioni e delusioni, in una sorta di meccanismo da profezia che sia autoadempie.

Maternità e partecipazione al lavoro remunerato continuano nel nostro Paese ad essere percepite come necessariamente in opposizione, l’una a detrimento dell’altro, e viceversa. Come se questa opposizione non fosse la conseguenza del modo in cui aziende, politiche sociali e padri continuano in larga misura a pensare e ad organizzarsi, senza tener conto delle responsabilità di cura che possono intervenire nel corso della vita dei lavoratori (verso i piccoli, ma sempre più anche verso adulti disabili e anziani fragili). O meglio dando per scontato che queste responsabilità siano a totale carico delle donne, delle madri. Sappiamo quanto al di sotto del bisogno (e spesso costosi) siano i servizi per la primissima infanzia. Anche sul piano dei congedi di maternità e genitoriali l’Italia ha perso da tempo la posizione di Paese generoso che deteneva ancora negli anni Settanta del secolo scorso. Ormai molti paesi, soprattutto quelli con tassi di occupazione femminile più elevati, offrono congedi genitoriali più lunghi e soprattutto meglio remunerati. Il che tra l’altro costituisce un incentivo, specie se accompagnato dall’esistenza di una quota riservata, perché anche i padri ne prendano una parte, condividendo i piaceri e le responsabilità di cura. L’insieme di questi fattori spiega perché l’Italia sia uno dei Paesi europei in cui il divario tra l’impatto positivo dell’avere un figlio piccolo sulla partecipazione al lavoro degli uomini e quello negativo sulla partecipazione al lavoro delle donne è tra i più ampi. Spiega anche perché, nonostante il tasso di occupazione femminile non sia certo tra i più elevati nei Paesi sviluppati, quello di fecondità è viceversa tra i più bassi.

Non ci perdono solo le donne, ma anche la società nel suo complesso. Perché non valorizza appieno le risorse di intelligenza e competenza della metà della popolazione, nonostante oggi le giovani donne siano mediamente più istruite dei coetanei maschi (e con ciò spreca anche gran parte dell’investimento fatto per la loro formazione). Perché (proprio per questo) fa fatica a riprodursi. Ci perdono, benché non ne sembrino consapevoli, anche le aziende, che si costringono a valorizzare solo una parte delle risorse umane disponibili, sprecando opportunità e investimenti in nome di stime non solo miopi, ma sbagliate, sui costi. Anche per questo quella italiana è una società bloccata, che fa fatica a innovare e innovarsi.
La Repubblica 14.10.09

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