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“La cassa non basta E io raddoppio con il posto in nero”, di Marco Sodano

Sì, sono in cassa. E certo che lavoro. Naturalmente in nero: altrimenti niente l’assegno. No, non lavoro per l’azienda che mi ha messo in cassa ma per un suo fornitore, un laboratorio poco distante. Prima montavo i macchinari interi, ora assemblo i pezzi. Conosco il mestiere, conosco i pezzi e le macchine, e arrotondo». Con ottocento euro al mese non si campa una famiglia con due figli che vanno a scuola, spiega Michele M., operaio specializzato di 46 anni che ha passato gli ultimi venti nei capannoni di un’azienda metallurgica del Torinese. «Anche se con la scusa della cassa non è che il mio secondo lavoro mi sia pagato proprio bene». Sei-sette ore al giorno per poco meno di settecento euro. «Almeno ho recuperato quasi tutto il mio stipendio. Non sono mica l’unico, siamo in parecchi a sbarcare il lunario così da queste parti».
È la legge – spietata – della crisi, che ha colpito la metallurgia più di altri settori. Non si possono tagliare le forniture, produrre significa sopravvivere. Non si possono tagliare le spese di manutenzione per lo stesso motivo. Non si possono evadere Iva, Irap e imposte sui redditi. Si possono evadere quelle sul lavoro, è la voce di costo più facile da tagliare. Basta fare finta che le venti persone che lavorano in un capannone siano dieci. E sperare che non arrivino controlli. Qualche mese fa, a Barletta, la Guardia di Finanza è entrata in un call center. Risultato del blitz: ventisette dipendenti, venticinque in nero. Niente contributi, niente ferie, niente malattia, nessun accantonamento per la pensione. Qualcuno, tra quei fantasmi, aveva avuto un contratto di lavoro dallo stesso call center. Poi la crisi, il taglio delle commesse, il taglio dei dipendenti: o meglio delle imposte versate per farli lavorare. Un caso specifico? Nel 2008 sono state fatte verifiche su 300 mila imprese in Italia: un quarto dei rapporti di lavoro presi in esame era irregolare. Tre milioni di persone, secondo uno studio della Cgia di Mestre.
Succede solo al sud? La Direzione provinciale del lavoro di Modena ha pubblicato, a luglio, i risultati di un’indagine sul suo territorio. Nel 2009 gli irregolari sono raddoppiati. Il direttore Eufranio Massi ha anche costruito una mappa dei settori più a rischio: «Edilizia, tessile, cooperative sono il terreno in cui prospera il nero. Ma la vera novità è che mentre prima si trattava quasi sempre di immigrati, sta crescendo in modo esponenziale la quota di italiani impiegati illegalmente». Il rapporto s’è capovolto: nel corso di quest’anno i lavoratori in nero pizzicati dai controlli erano in maggioranza (41%) disoccupati. Almeno in teoria. E non c’è solo il nero vero e proprio. C’è anche la «falsa autoccupazione»: gente che esce dall’azienda, va a registrare una partita iva e il giorno dopo torna al lavoro. Sembrano autonomi, ma sono dipendenti in tutto e per tutto: rispettano orari, prendono indicazioni dai capi, usano attrezzature dell’azienda. Succede soprattutto nei cantieri edili, ma anche nelle aziende che si occupano di manutenzione e servizi.
Così si spiega il boom di microimprese nate, per esempio, nel corso di quest’anno. Ventottomila sono spuntate solo tra aprile e giugno: in piena crisi. Credibile? Non troppo. E poi ci sono, anche tra le micro, quelle che chiudono. I rapporti col fisco, non i battenti. L’attività cessa solo sulla carta: piccole imprese di pulizia, traslocatori, ristrutturatori di appartamenti. Si lavora come prima: ma senza contributi, mutua, assicurazione eccetera eccetera.
«La crisi picchia – conclude Michele -, ognuno si difende come può. Dobbiamo pur mangiare, tutto sommato io mi ritengo fortunato. Anche perché, in confidenza, il posto per arrotondare me l’ha trovato il titolare della mia azienda. Ha garantito per me». Bravo, fidato, discreto. Con due figli e una moglie da mantenere
La Stampa 18.10.09

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Telecom France, la battaglia dei suicidi , di Barbara Spinelli

Venticinque persone che si suicidano alla Telecom francese in un anno e mezzo: è sconvolgente perché somiglia a un’ecatombe, a una guerra inconfessata. I profitti dell’azienda sono altissimi, la semi-privatizzazione del 2004 è stata un successo, ed ecco: l’operazione è riuscita, ma i morti sono tanti. Non siamo di fronte all’immolazione d’un capro espiatorio: il capro stesso tende il collo, si considera degno di olocausto. Un divario così grande fra utili dell’impresa e sofferenza umana riguarda la società, non semplicemente la psiche di individui che fanno harakiri, il più delle volte dimostrativamente nel posto di lavoro. Che non riescono a traversare indenni la nuova mobilità, i licenziamenti sempre incombenti, l’ansia che recide tranquillità e speranza, l’organizzazione del lavoro fondata sulla nuova cultura della valutazione, tutta protesa a cifrare come a scuola risultati, ritmi lavorativi, comportamenti psichici, su base quantitativa e mai qualitativa: «Una cultura di morte e per la morte», scrive Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera del 17 ottobre.

Strano come negli ultimi due-tre anni la morte volontaria abbia messo radici in una terra di rivoluzioni, di regicidi. Il fenomeno si è rivelato più tenace dei sequestri di manager. Oltre ai suicidi in Telecom vanno ricordati quelli al centro Guyancourt di Renault nel 2006-2009 (4 suicidi, l’ultimo in ottobre), nella fabbrica Peugeot-Citroën di Mulhouse (6 suicidi nel 2007), nel gruppo Electricité de France (3 suicidi in 6 mesi, nel 2007).

I dati parlano di 500 suicidi l’anno per lavoro, ma gli esperti sono convinti che il numero sia assai più alto. A Telecom i sindacati sono presenti, altrove c’è deserto sindacale e la notizia s’insabbia.
Bisognerebbe fare una raccolta delle lettere che alcuni hanno lasciato, prima di uccidersi, come si fa con le lettere dei condannati a morte. Aiuterebbe molti a capire, a rettificare parole, certezze, a vedere un’emergenza sociale dietro le intimità di una psiche. Il lavoro occupa l’intera mente dei suicidi, e l’intera esistenza. Illuminante e terribile è la lettera di Michel D, il quadro dirigente che si è tolto la vita il 14 luglio scorso. È indirizzata ai familiari e a tutti i colleghi: «Mi uccido a causa del mio lavoro a France Telecom. È l’unico motivo. Urgenza permanente, sovraccarico di lavoro, assenza di formazione, disorganizzazione totale dell’azienda: questo mi ha completamente disorganizzato e perturbato. Sono diventato un relitto, meglio farla finita». E in un post scriptum: «So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro».

I rapporti degli esperti (psichiatri, medici del lavoro, sociologi, mobilitati nell’ultimo anno) individuano nel lavoro l’epicentro del terremoto suicida. Jean-Claude Delgenes, fondatore della società Technologia che studia questi casi, elenca numerosi motivi ma su uno insiste, in particolare. Il male è nella parola, dice: nella parola che perisce prima della persona, cancellando ogni legame sociale. Il flusso dell’informazione si dissecca, e il singolo si sente solo, minacciato da declassamento, controllato da troppi occhi che «lo assillano moralmente e lo spingono a lasciare l’azienda per esaurimento». La Telecom è un caso speciale, perché per oltre mezzo secolo è stata un grande servizio pubblico: il 65% degli impiegati sono tuttora funzionari dello Stato. La maggior parte dei suicidi avviene tra loro e nelle classi alte: quadri e ingegneri di 48-50 anni, sconvolti dall’avvento di cellulari e internet.

L’assenza di parola è malefica, quando non circola più e si allontana come un Dio dichiarato morto: non viene data a chi forse si salverebbe parlando, non viene ascoltata quando stentatamente è detta dal sofferente, non è scambiata tra colleghi. Qui è il crimine, e tutti sono responsabili di un’afasia proliferante e contagiosa: i manager ma anche i sindacati, i politici che non illustrano i costi della crisi e i mezzi di comunicazione. Un mondo sta finendo – il lavoro fisso, il sindacato forte che arginava le disperazioni – e l’enorme mutazione è occultata, sottovalutata.

Ivan du Roy, giornalista a Témoignage chrétien e autore di un libro sui suicidi a Telecom, ricorda che non fu diverso l’affare dell’amianto: ci vollero decenni per riconoscere che i tumori nascevano in fabbrica. Lo stesso accadrà per il nesso lavoro-suicidio (Du Roy, Orange stressé: Le management par le stress à France Telecom, Parigi 2009). Gli amministratori della compagnia hanno esitato a lungo, prima di ammettere che qualcosa non andava, a cominciare dai vocabolari. Il management attraverso la paura, denunciato da Michel D, è qualcosa che non vogliono afferrare. Per mesi, il presidente Lombard ha parlato di «moda dei suicidi».

Questo linguaggio sprezzante è mortifero, soprattutto in un’azienda che è stata servizio pubblico dove il lavoro significava fierezza, prestigio. È un linguaggio sfrontato nato dal fondamentalismo anti-statalista. Mette in luce gli ingiusti privilegi di certi lavoratori ma fa loro mancare quello che più li motiva e li aiuta: il riconoscimento, la stima di sé. La parola d’ordine è, in Francia: Il faut secouer le cocotier – bisogna scuotere l’albero di cocco. Un’espressione perfida che richiama l’usanza, osservata in alcune etnie polinesiane nell’800, di eliminare fisicamente i vecchi quando non erano più capaci di arrampicarsi sugli alberi e raccogliere il cocco. Usato oggi, il termine significa: bisogna eliminare gli improduttivi. In Italia un ministro usa vocaboli simili (fannulloni, parassiti) senza sapere che la storia di certe parole è tragica, proprio quando esse diventano popolarissime.

I sindacati sono specialmente in causa, perché spetta a loro incanalare le ribellioni, educare al nuovo, e dare ai lavoratori non illusioni ma verità. Il suicidio smaschera la loro inconsistenza, essendo una rivolta strozzata subito. Il ribelle, lo dice l’etimologia, ricomincia sempre la guerra (re-bellum). Il suo linguaggio (militanza, mobilitazione) è militare. Il suicida grida, muto, che la guerra è finita: è infinitamente stanco di storia. Come l’Amleto europeo che Valéry descrive dopo il 14-18, «pensa alla noia di ricominciare il passato, alla follia di voler sempre innovare. Barcolla fra due baratri, perché due pericoli incessantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine».

Non è vero che troppa informazione è deleteria, come dicono molti governanti. La maggior parte dei suicidi lamentano di non esser mai informati, su crisi e ristrutturazioni: né dai manager, né dai sindacati, né dai politici. Sentono solo parole offensive nei loro confronti. Sentono «un’agitazione permanente chiamata pomposamente innovazione», scrivono il 28 settembre i firmatari di una lettera aperta al presidente Telecom. Invitati ossessivamente a pensare positivo, nulla li prepara psicologicamente a tempi duri, al lavoro che ridiventa necessità e pena.

Non meno responsabile è la professione giornalistica. Da tempo ormai le pagine economiche dei giornali sono monopolizzate da articoli su imprese, finanza. I servizi sul lavoro sono pressoché scomparsi. Il capo della Confindustria si esibisce quasi fosse un ministro, pur essendo rappresentante di un sindacato come altri. Lo studioso Michael Massing scrive che la stampa Usa non si occupa praticamente più dei problemi sociali (New York Review of Books, 1-12-05). Il New York Times ha 60 reporter che seguono il business, e uno che segue il lavoro.

Il respiro breve, il tempo corto: sono mali che non affliggono solo la finanza ma anche il lavoro. Tutto deve esser ottenuto subito. Chi regna è il cliente: una giusta rivalutazione del consumatore, che rischia tuttavia di ributtare il produttore nel nulla («Je suis nul – Sono nullo, sarò licenziato», dice un altro suicida nell’ultima lettera). Tutto questo è moderno e tragico al tempo stesso. Sfocia in un brave new world dove mai sfuggi al sorvegliante. Dove ti ordinano di pensare positivo, e se pensi negativo ti eliminano come i vecchi che non sanno più inerpicarsi sull’albero di cocco.
La Stampa 18.10.09