attualità

“Tangentopoli è ancora qui”, di Curzio Maltese

Soffia un vento da fine Repubblica, un clima da ’92, nelle vicende di questi giorni. Si è tornati a parlare delle stragi di Falcone e Borsellino, delle trattative fra mafia e stato intorno al “papello”, il mistero più oscuro all’origine della Seconda Repubblica.

Le cronache tornano a riempirsi di storiacce di appalti e tangenti, di sistemi politici criminali scoperchiati, di arresti eccellenti fra Napoli e Milano. È come se il muro di omertà, mascherato da ideologie, steso da un decennio sulla corruzione fosse in procinto di cadere in pezzi, rivelando l’eterna attualità della questione morale.

La corruzione in Italia è da sempre la vera emergenza, un fattore che condiziona la vita politica ed economica. Ma il circo di media e politica, passata la tempesta di Mani Pulite, ha finto che non esistesse più. Alimentando una fabbrica di chiacchiere generiche, appese alle nuvole e fondate sul nulla. La forza delle cose s’incarica poi di restituirci alla realtà. Alla luce delle notizie di queste ore, alcuni dei temi privilegiati dal dibattito pubblico assumono un significato grottesco. Il posto fisso è un valore o bisogna accettare la flessibilità? Nel reame di Ceppaloni il conflitto era risolto in una mirabile sintesi hegeliana. Posti fissi o mobili, progetti a termine e consulenze milionarie, erano assegnati senza distinzioni fra destra e sinistra, laureati e asini, da un unico e gigantesco ufficio di collocamento clientelare. La signora Lonardi, moglie dell’ex ministro del centrosinistra, ora europarlamentare del centrodestra, dice che le “è crollato il mondo addosso” quando ha ricevuto l’ordine dei magistrati di non rimettere piede in Campania. Si figuri, signora, com’è crollato il mondo ai giovani meridionali. A quelli ancora convinti che per trovare un lavoro occorrano studio, impegno, talento.

Da anni destra e sinistra discutono sulla forma del federalismo futuro. Quali funzioni potrà svolgere il meraviglioso stato federale, soluzione di ogni conflitto, quali (poche) dovranno rimanere all’orrido Stato centralista, con quali contrappesi solidali. Fingono tutti di non sapere e di non vedere che cos’è il federalismo nell’unico settore in cui è già stato realizzato: la sanità. La voce che da sola occupa i due terzi dei bilanci delle Regioni. Un’orgia di sprechi, mazzette, appalti truccati, affari sporchi fatti, non metaforicamente, sulla pelle dei cittadini. Dalla Puglia alla Lombardia, nelle regioni rosse come in quelle berlusconiane. Regni di trafficanti bipartisan come il Tarantini di Bari, che organizzava festini per il premier e dopocena per gli assessori della giunta di Vendola. In cambio di che cosa, lo diranno i magistrati. Potentati economici e politici, come la sanità lombarda, governata da quel Giancarlo Abelli sfiorato da decine di inchieste e in ultimo toccato da quella sulle bonifiche delle aree edificabili di Santa Giulia, dell’ex Falck di Sesto San Giovanni e di Pioltello, per cui è già in carcere la signora Abelli, Rosanna Gariboldi. Perché sia chiaro che i clan familisti non allignano soltanto nel Mezzogiorno.

Non è il “ritorno della corruzione”, come titola qualche notiziario. Perché la corruzione non se n’era mai andata. Ha continuato a far parte della vita quotidiana di milioni d’italiani dopo Tangentopoli e ora forse più di prima. È forse il ritorno di un clima sociale. O ancora più probabilmente, si tratta dei morsi della crisi economica. “Quando circolano meno soldi nelle tasche, i cittadini s’indignano più facilmente” chiosava anni fa uno dei protagonisti del pool milanese, Pier Camillo Davigo. Oggi, come allora, la crisi rende insostenibile per molti imprenditori la tassa della corruzione, che si erano rassegnati a pagare. Sono loro a sollevare il coperchio, gli esclusi dagli appalti di partito, i bocciati al concorso truccato. Corrono a chiedere giustizia a una magistratura senza mezzi e sotto minaccia, forte soltanto della propria indipendenza dal potere politico, garantita dalla Costituzione. Ancora per quanto, non si sa.
La Repubblica