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“America terra desolata”, di Barbara Spinelli

C’è allarme, da qualche tempo, su Obama e il suo cambiamento. Aumentano gli scontenti, specie nella sua base. Crescono campagne d’odio, in un partito repubblicano divenuto semi-fascista. Si moltiplicano le accuse di scarsa fermezza, sveltezza. Il cambiamento promesso il giorno dell’elezione, il 4 novembre 2008, ancora non si vede del tutto. Spesso pare smentito: su sicurezza e libertà, il Presidente è sospettato di proseguire, intimidito, alcuni costumi di Bush. Ciascuna di queste accuse ha una sua ragion d’essere. Ma tutte sembrano come cieche, incapaci di vedere la profondità della crisi americana e la tenace volontà con cui il Presidente l’affronta, non schivando pericoli e ostacoli ma andando ogni volta lì dove le loro radici sono più potenti, per studiarle e smontarle. Quel che i critici non vedono è al tempo stesso la forza delle resistenze al cambiamento, i mali troppo antichi per esser sveltamente sanati, e il mutamento già avvenuto del clima mondiale. È come fossero impermeabili alla pedagogia della verità inaugurata da Obama sin dal primo giorno: «La strada è lunga e ripida, disseminata di sconfitte e inciampi. Non arriveremo alla meta in un anno, e forse neppure in quattro».

Obama si trova a guidare un paese che è, da molti punti di vista, la terra desolata di T.S. Eliot: un cumulo di immagini infrante. È sempre ancora il paese più inventivo, e «la sua influenza resterà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta», dice Kissinger. Ma la caduta, non solo economica, è tangibile. La Cina che diventa il primo creditore degli Stati Uniti, il dollaro che diffonde instabilità perché riflette la crisi di una sola nazione pur restando moneta mondiale, son segni di un equilibrio internazionale che si ricostruisce su basi diverse – un po’ come in Europa prima del ’14 – con l’America che non è più l’unica, la più sana, la più esemplare delle potenze. Le guerre di Bush contro il terrore volgono al fallimento, non solo in Iraq da cui Obama s’è ritirato. L’esitazione del Presidente sull’aumento di truppe in Afghanistan è segno di serietà: l’appoggio al regime corrotto di Karzai ha avuto come risultato la conquista talebana di oltre metà Afghanistan, e un’insurrezione antiamericana ormai disgiunta da taleban e Al Qaeda. Senza Obama, Karzai non sarebbe stato costretto a rifare le elezioni che aveva truccato.

Viene poi il disastro mentale, culturale: il disastro di un nazionalismo che ha radici secolari, e più volte è divenuto malattia acuta, apocalittica convinzione d’esser sempre nel bene trionfante. L’ideologia messianico-affaristica di Bush non è che l’apice di un’onda lunga, che risale alla seconda metà dell’800, e che vede nell’America una nazione eletta a guidare il mondo, la lucente città sulla collina che redime e rieduca la terra peccaminosa perché tale è il suo destino manifesto. Obama fa i conti anche con questa tradizione, che ha avuto come epigono farsesco Bush jr. e s’è impersonata in Wilson nel ’14-18, in Reagan negli Anni 80. Anche qui non siamo che agli inizi, e Obama ha cominciato l’opera con un’ambizione più grande ancora di quella di Roosevelt, prima del ’39. Allora Washington rispose al collasso economico con il protezionismo, l’isolazionismo. Obama affronta ambedue i collassi, e proprio nel momento in cui cura il paese apre al mondo. Stabilisce un nesso fra le due crisi – sul piano interno una democrazia parlamentare corrosa dalle lobby e un potere esecutivo screditato da continue trasgressioni della legge e della costituzione; sul piano esterno il tracollo del prestigio Usa – e con atti e parole mostra di volerle combattere confutando certezze fin qui incrollabili.

Prima certezza messa in questione: quella di esser nel giusto, sempre. Una certezza smisuratamente dilatata dopo la guerra fredda. Sicure d’aver vinto grazie alla loro egemonia culturale, economica, politica, tre amministrazioni hanno dimenticato una verità elementare: è molto più facile per il vinto imparare dalle sconfitte, che per il vincitore apprendere dalla vittoria. Vincitrice, l’America ha smesso nell’89 di pensare, senza costruire il dopo. Negli anni dello scontro con l’Urss era stata la guida del mondo libero. Caduta l’Urss ha voluto divenire guida del mondo, quello libero e quello da liberare: potenza che non tollera rivali, persuasa d’esser sempre, sola, nel giusto. I neo-conservatori hanno perfino vagheggiato la replica dell’impero romano. Le abitudini della guerra fredda, che avevano favorito la sconfitta dell’avversario, son divenute vizi che frenano ogni capacità di capire il mondo e ridisegnarlo. Anche qui, il clima è mutato e risultati si vedono: in Iran, Iraq, nei discorsi sull’Islam, negli impegni su disarmo nucleare e clima, nel taglio ad alcune spese militari.

Obama è figlio dei movimenti civili che infransero il mito nazionalista del faro di libertà. È l’erede di chi lottò contro la guerra in Vietnam e l’odio razziale. Anche per questo suscita repulsioni così violente, non per quello che fa ma per quello che è e dice: sul rispetto dell’altro, del diverso. Per come ha commentato, mercoledì, la legge contro i crimini fondati sull’orientamento sessuale.

Il tempo della delusione forse verrà, se deve. Ma in una battaglia appena iniziata è insensato dar per scontata la disfatta, trasformare la speranza in vizio, e decretare già ora che il Presidente non si libererà da quella che lo storico Anders Stephanson chiama la «sovranità globale», la chimerica predestinazione americana al bene (Destino manifesto, Feltrinelli 2004). Sino a oggi, in fondo, l’America non aveva vissuto quel che l’Europa ha sperimentato nel ’45: la scoperta inorridita di sé, della propria insolenza nazionalista, e la svolta che rappresentò l’abbandono – tramite l’Europa unita – della sovranità assoluta degli Stati. Anche se non ha davanti a sé città annientate, l’America conosce un tracollo mentale non diverso.

Ma è un bivio difficile, perché antichi sono i mali, e lenta la cura. La coalizione di interessi che blocca il cambiamento è portentosa. Perché non continuare a spendere e arricchirsi come in passato, lasciando i deboli a terra, visto che comunque resteremo i primi nel mondo e che non si vedono in giro città rase al suolo? Questa la doppia presunzione, interna e mondiale, che ha visto nascere una superpotenza solitaria con i piedi d’argilla, perché dotata di un modello sociale che lascia più di 30 milioni di americani senza protezione sanitaria. Resistono le lobby, le assicurazioni private, e quello che Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale. Per questo è già un progresso grande: la riforma sanitaria è difficile, per quarant’anni è stata impossibile, e tuttavia Obama la farà. Smettere le guerre e tornare al multilateralismo è lento, eppure qualcosa già si muove.

Molto dipende da come son vissute in casa le mutazioni, e questo non vale solo per l’America. Lo vediamo anche in Italia: i cambiamenti sono visti come qualcosa che spetta ai governi, non al cittadino che dopo il voto si scopre responsabile. Le società non sono traversate da grandi movimenti civili. L’America di Johnson abolì la segregazione razziale perché spinto da una corrente vasta che mai si scoraggiò. Obama non ha alle spalle simili movimenti ma una società più inerte, atomizzata, capricciosa.

Anche l’Europa può molto. Può mostrare che il suo modello di sovranità condivisa è la via. Anche per questo è un bene che la candidatura di Blair alla presidenza stia tramontando. Non tanto perché ha partecipato alla guerra in Iraq, ma perché l’Inghilterra è l’unica nazione importante, in Europa, che non ha rinunciato al mito, menzognero ormai anche per gli Stati Uniti, della sovranità assoluta. È un bene che Helmut Schmidt, il grande vecchio, abbia detto il vero: sarebbe pericoloso se un antieuropeo, per di più carismatico, diventasse il nostro portavoce in un’America che sta cambiando.
La Stampa 01.11.09

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Cercando Obama sulle strade dell’America amara, di Mario Calabrasi
Case pignorate dalle banche e giardini travolti dalle erbacce “Noi resistiamo, ma lui deve aiutarci ad aggiustare questo Paese”
Non c’è più nessun segno della vittoria. Anche quella brezza mite di un anno fa, miracolo in una città in cui l’inverno arriva ad ottobre, è scomparsa. Il prato della festa durata una notte intera è una palude. Due milioni di piedi lo avevano calpestato, oggi ospita 76 oche che combattono con immensi corvi per conquistare i pezzi di pane che tira un venditore di giornali di strada. «Qui a Grant Park non hanno messo neanche una targa – ridacchia – così i turisti credono che il prato di Obama sia laggiù sotto i grattacieli, davanti al nuovo museo dell’italiano. Perlomeno le oche possono stare in pace, visto che tra poco il lago comincerà a ghiacciare».

L’italiano è Renzo Piano, che ha realizzato la nuova ala dell’Art Institute, quando l’hanno inaugurata a maggio a Chicago erano ancora convinti che grazie al nuovo presidente avrebbero conquistato le Olimpiadi del 2016. Poi è arrivato lo schiaffo che ha incoronato Rio e cancellato il sogno di essere la nuova capitale d’America. Il logo con la stella e i cinque cerchi che aveva accompagnato la candidatura è scomparso da ogni vetrina, sparite le magliette, i cappellini e le tazze, rimosse anche le immagini del presidente. È il carattere di Chicago: dimenticare subito le sconfitte e tornare agli affari.

Per incontrare la faccia di Obama bisogna scendere ad Hyde Park, qui il Secret Service continua a tenere sigillato l’isolato della moschea, dove c’è la villa di mattoncini rossi con il canestro sul retro, casa della prima famiglia d’America. Avevano promesso che sarebbero tornati per il fine settimana almeno una volta al mese, ma lo hanno fatto soltanto tre volte da gennaio. Nel quartiere però nessuno se l’è presa. Qui il tempo sembra essersi fermato alla mattina del 5 novembre del 2008, era mercoledì ma sembrava domenica: nessuno andò a lavorare, tutti suonavano il clacson e sventolavano bandiere in mezzo alla strada. L’edicola all’angolo della 53esima è ancora tappezzata di riviste che celebrano l’elezione, bisognava fare oltre tre ore di coda per conquistare una copia da collezione del Chicago Tribune o del Sun-Times. Al ristorante Valois questa volta però la colazione si paga, un anno fa per festeggiare servirono gratis uova e pancetta a 1500 clienti. Per avere il piatto preferito di Obama, «steak & eggs» – una gigantesca bistecca coperta da un’omelette e accompagnata da patate al forno e toast imburrati – ci vogliono 8 dollari e 95. Troppi per molti avventori. Qui l’amore per il presidente è rimasto intatto ma il clima è cambiato, accanto alla cassa allo slogan «Yes we can» hanno aggiunto 3 parole: «Help the economy».

«Sì, si può aiutare l’economia»: vogliono il posto di lavoro e l’assicurazione sanitaria. È questa la preoccupazione dei clienti della caffetteria Valois e di tutti gli americani un anno dopo l’elezione del primo presidente nero. Un viaggio attraverso gli Stati Uniti oggi ci dice solo e soltanto questo: o il presidente aggiusta l’economia e abbatte la disoccupazione, che è arrivata al 10 per cento, oppure nulla lo salverà dalla bocciatura dei suoi concittadini.

«Ha ricostruito le nostre relazioni con il mondo e ha mandato un messaggio di pace all’Islam, sono orgoglioso di lui ma ora deve creare posti di lavoro altrimenti resterà solo con il suo Nobel». Mentre parla Lester Walton, un’icona tra i neri di Hyde Park, continua a spingere la sua sedia a rotelle. Poi si ferma, indica le spillette che ha messo sul bavero con i volti di Obama e Martin Luther King, e puntualizza: «Però non ho capito tutte quelle critiche e quell’ironia: il premio se l’è meritato. La strada è quella giusta ed è quella della Storia».

Fort Wayne, Indiana
La strada ci porta a sud-est, sulle tracce della disoccupazione, nel cuore dell’Indiana, Stato repubblicano che a sorpresa e per colpa della crisi lo scorso anno scelse di scommettere su un democratico nero. Fort Wayne è esattamente tra Chicago e Detroit, tra i laghi Michigan e Erie: percorrere in auto le due coste fa paura, si incontrano interi quartieri di case diroccate, pignorate dalle banche a chi aveva perso il lavoro e mai più rivendute. Prima di arrivare in città si ha l’illusione del paradiso, per alcuni chilometri scompaiono i cartelli «vendesi», i giardini hanno il prato tagliato alla perfezione e al posto delle macchine si incontrano calessi neri trainati da cavalli. È la terra degli Amish, che continuano a vivere come se il tempo si fosse fermato tre secoli fa. Ma l’illusione scompare in fretta: ecco le fabbriche che producevano trattori e poi le acciaierie abbandonate, una sfilza di scheletri che circondano il centro di Fort Wayne. Nella Contea di Elkhart la disoccupazione ha raggiunto il 15 per cento e aumenta ogni mese. Sono tornato per incontrare una donna di 67 anni con i capelli bianchi raccolti in una coda, si chiama Jaleh, è di origine iraniana ma da decenni ha in tasca il passaporto americano. Un anno fa mi aveva raccontato di non aver mai votato, disgustata dalla politica, di aver dedicato tutta la vita alle ceramiche, ai figli e al grande roseto che aveva piantato in giardino. Poi aveva sentito un discorso di Obama in tv, era rimasta folgorata e si era presentata al quartier generale dei volontari convinta di dover fare la sua parte: per dieci mesi aveva preparato torte e sandwich con il pane fatto da lei per tutti i ragazzi. Voglio chiederle se è delusa. Mentre percorro il vialetto che porta all’ingresso della villetta ad un piano vedo che nel suo giardino è piantato il cartello «vendesi». Resto paralizzato: anche lei sta per perdere la casa? «No, ho finito di pagarla vent’anni fa, ma non ha più senso restare qui. La crisi economica ha distrutto quest’area, la vita sta scomparendo. Pensi che con mio marito comprammo questa casa di quattro stanze nel 1976, costava 70mila dollari, con gli stessi soldi avremmo preso un attico a Manhattan o una villa sull’Oceano a Santa Barbara, che ora valgono trenta volte tanto. Sai quanto mi hanno offerto dopo che ho rifatto tre volte il tetto e messo un parquet meraviglioso? Novantamila dollari. Vale come negli Anni Settanta. Non c’è più niente da fare, non resta che andarsene, raggiungerò i miei nipoti a New York». Mi offre una tisana, parla del roseto che andrà in malora e del forno per cuocere i vasi, costruito nel garage, che non interessa a nessuno. Racconta che qui c’era un negozio di Giorgio Armani, una succursale della Porsche e un rivenditore dell’Alfa Romeo: «E tre enormi grandi magazzini: due li hanno già abbattuti, rasi al suolo per mancanza di clienti, il terzo resiste a fatica». L’America vista da questo salotto sembra senza speranza. E pensare che sulle finestre per mesi erano stati appesi i cartelli «Hope» e «Change». Tale è l’amarezza che quasi non oso chiederle un giudizio sul presidente, ma lei ritrova il sorriso e mi racconta che il suo amore non è svanito: «Ho ancora fiducia in lui. Lavora come un mulo eppure lo criticano, ma io nonostante tutto sono ottimista e fiera di questo presidente su cui ho scommesso la mia passione».

Home stead, Florida
Per seguire la curva ascendente del numero di famiglie che perde la casa bisogna scendere fino in fondo alla Florida, arrivare quasi sul confine con il parco nazionale delle Everglades famoso per le sue paludi abitate dagli alligatori. Qui c’è il picco, qui c’è Homestead, ribattezzata dal Miami Herald «Foreclosureville», la città dei pignoramenti. Due anni fa era stata celebrata come la comunità con la crescita più veloce d’America, se ancora nel 2000 era un centro agricolo con 30mila abitanti, nel 2008 aveva raddoppiato i suoi cittadini. «Arrivavano a frotte ogni settimana – racconta la cinquantenne Diana che è nata e cresciuta qui e gestisce uno studio di architettura -, attirati dal clima e dai prezzi bassi, compravano le casette nuove con il giardino e il posto per la barca, sembrava il luogo ideale per vivere: in 45 minuti si arrivava in ufficio a Miami. Ma l’idillio è finito in fretta: la strada ha cominciato a riempirsi di un traffico infernale, due ore di coda per raggiungere la città e un tempo infinito per tornare a casa». Poi il prezzo della benzina è schizzato alle stelle, la disoccupazione si è fatta sentire e il boom immobiliare è crollato: dall’elezione di Obama a oggi sono già scappate 1800 famiglie, le case hanno perso due terzi del loro valore e lungo l’autostrada ci sono interi quartieri completamente vuoti. Le terrazze delle ville vista lago sono abitate soltanto dalle rane. Chi è rimasto vive l’umiliazione di avere un mutuo più alto del valore dell’abitazione, di vedere che i risparmi di una vita non valgono più nulla. Chi ha perso il lavoro si mette in fila per avere la tesserina di plastica bianca e blu con cui si può fare la spesa al supermercato: è la versione moderna dei Food Stamps, i buoni pasto governativi. Ogni mese lo Stato la ricarica per combattere la povertà e il rischio di malnutrizione nel Paese più ricco del mondo. Oggi la carta di credito dei poveri ce l’hanno in tasca 36 milioni di persone, sette milioni in più del giorno in cui Obama ha vinto. «La situazione continua a peggiorare – alza la voce Liz la libraia – solo la Borsa e le banche si sono riprese, ma la gente della strada continua a stare male, anzi peggio e non vedo come ne usciremo». Diana mi accompagna su Krome Avenue, il cuore storico di un centro che viveva coltivando fagioli, pomodori e meloni prima dell’arrivo degli speculatori dei grandi costruttori. Mi mostra il Seminole, teatro storico in ristrutturazione: «Ci avevano promesso che sarebbe tornata anche l’opera, ma adesso il bilancio comunale ha perso un quarto delle sue entrate e non lo finiranno mai». I ristoranti sono tutti messicani, mi porta nel suo preferito per spiegarmi che non basterà un presidente per «aggiustare un’America che si è persa»: «Il nostro modello di sviluppo è stato gestito dagli speculatori, sono arrivati qui e hanno cominciato a lottizzare e ad edificare perché la terra non costava nulla dopo il passaggio dell’uragano Andrews nel 1992, poi hanno costruito l’immagine del luogo ideale dove vivere e sono riusciti a venderla a chi aveva voglia di scappare dal freddo o dalle grandi città. Intorno sono arrivati i supermercati, le gelaterie, le pompe di benzina, i negozi che affittano film e i rivenditori di computer. Hanno creato una finta città, senza un senso economico o un radicamento, poi l’hanno abbandonata. Oggi è distrutta dai suoi vuoti e sta collassando su se stessa». Provo a parlarle di Afghanistan e scuote la testa: «Qui non siamo interessati alla politica estera, vogliamo una casa e un lavoro. Neanche più i cubani di Miami si occupano di Fidel Castro, presi come sono ad arrivare alla fine del mese».

Miami, Florida
La voce del vecchio Armando Perez Roura continua ad occupare le frequenze di Radio Mambi, l’emittente dei cubano americani più conservatori, la più ascoltata da chi è arrivato in Florida prima del 1980 e continua a vivere a Little Havana. La mattina in cui è stata annunciata l’assegnazione del Nobel a Obama non ha fatto una piega: «È naturale: glielo hanno dato perché è un premio inventato dai sovietici». A nessuno importa che non sia vero, per i vecchi cubani l’offerta di un dialogo ai fratelli Castro è il peggior tradimento che potesse arrivare da un presidente americano, qualcosa perfino peggio del comunismo. Al Versailles, storico ritrovo di chi si sente esiliato, nessuno vuole pronunciare il nome dell’inquilino della Casa Bianca, preferiscono ignorarlo, far finta che non esista. Continuano la loro colazione, con il caffè che viene servito già zuccherato e le paste ripiene di ricotta, e fanno una smorfia a sentir parlare di Obama. Eppure il presidente proprio grazie ai giovani ispanici ha conquistato lo Stato che aveva dato per ben due volte la vittoria a George Bush. E subito ha mantenuto le promesse: ha tolto i limiti al numero di viaggi per Cuba, alle spedizioni di denaro e al contenuto dei pacchetti postali, rivoluzionando i comportamenti della comunità più influente della Florida. Così, nonostante la finta indifferenza dei più vecchi, un terremoto sta attraversando la comunità: il primo sintomo è stato il crollo del traffico telefonico fisso verso Cuba. È successo perché la gente ha cominciato a viaggiare – adesso ci sono otto voli diretti da Miami e i giovani provano l’ebbrezza di andare a Varadero per il fine settimana – a spedire computer, cellulari e schedine telefoniche ai familiari, che stanno imparando ad usare la posta elettronica e a mandare sms verso la Florida. Le navi da crociera che offrono prezzi stracciati per visitare i Caraibi e partono mezze vuote da Fort Lauderdale stanno aspettando con ansia il permesso di attraccare a L’Avana, per loro sarebbe la fine della crisi, la realizzazione di un affare che sognano da decenni. Ma si aspetta un segnale dal regime. Nessuno azzarda pronostici. Obama ha chiamato a Washington Joe Garcia – avvocato democratico che ha perso per un soffio l’elezione a deputato – per studiare le prossime mosse. Per provare a immaginare cosa farà Obama torno da Rui Ferreira, giornalista portoghese di nascita e cubano di adozione, massimo esperto della comunità di Miami e delle relazioni tra Washington e il regime castrista. «Siamo nella stessa situazione che c’era all’inizio del 1971 tra gli Usa e la Cina, allora tutto si sbloccò con la diplomazia del ping pong, quando i giocatori della squadra americana vennero invitati a Pechino per una partita con i cinesi. I cubani non sanno giocare a ping pong ma sanno cantare e capiscono la musica, per questo Hillary Clinton ha dato il permesso a Juanes, stella della musica latina americana, di andare a suonare a L’Avana davanti a mezzo milione di persone. Il secondo tempo della diplomazia della musica potrebbe essere il viaggio della New York Philharmonic a Cuba, ma c’è chi dice che la svolta sarà una partita di baseball». Non tutti sono ottimisti come Rui, Manuel Aranda nella sua parrocchia di Little Havana deve fare i conti con i fedeli più anziani, quelli che hanno pregato tutta la vita per il crollo del regime di Castro, per il ritorno a Cuba, e che adesso sono presi dallo sconforto: «Come possiamo continuare a credere in Dio – gli ripetono – come è possibile che abbia lasciato eleggere presidente un nero comunista?». Rui solleva gli occhialini sulla fronte, ordina un’altra birra e chiosa: «La differenza la farà l’economia, Obama si gioca tutto sull’occupazione, sono sicuro che se sarà capace di far tornare in tasca un po’ di soldi alla gente, allora anche quei vecchi cubani torneranno a credere in Dio».
La Stampa 01.11.09