cultura

“Addio grande Alda, bruciata dalla vita, rinata nella poesia”, di Giulio Ferroni

Una sorta di turbine poetico agita la voce e l’esistenza di Alda Merini: la sua poesia sfugge ad ogni definizione, a linee, a tendenze, a gruppi, come sfugge ad ogni distinzione di fasi e momenti, evitando di sistemarsi in raccolte organiche e circoscritte, ma si affida volta per volta alle occasioni del vivere. Essa si è sviluppata in un flusso continuo, che ha la qualità di un modo di porsi nel mondo: offerta di sé al ritmo indefinito della quotidianità, in una ininterrotta costruzione di rapporti, di possibilità che variamente si intrecciano, si confondono, si sovrappongo, si infittiscono e si districano; presenza dentro il corpo e in mezzo alle cose, ricca certo di sapienza e di passione, intessuta di molteplici echi della cultura e del mito, di suggestioni di un mondo lontano, di parole perdute e indecifrabili, ma tutta esaltata, consumata, bruciata, nel suo darsi, nel suo offrirsi all’occasione, canto e vocalità in totale abbandono, dono divino caduto nella banalità del presente, ma pronto comunque ad accendersi anche in quella banalità, a brillare nonostante tutto, tra gioia e disperazione, tra la più nuda esposizione di sé e il trucco più sontuoso e splendente.

Poesia come totalità dell’esistere, come condizione stessa della vita personale; lo mostra nel modo più esplicito il testo che dà titolo alla presente raccolta, “Come polvere o vento”, dove la sola eventualità di essere lasciata dalla poesia viene equiparata ad una caduta rovinosa («cadrei a terra», ripetuto due volte), ad una sconfitta senza scampo: la poesia agisce «come una gruccia/ che tiene su uno scheletro tremante» e la perdita di questa funzione farebbe cadere a terra il soggetto «come un cadavere/ che l’amore ha sconfitto». La poesia è insomma qualcosa di evanescente, che si espande nell’evanescenza del mondo («come polvere o vento»), ma che in questa sua impalpabile presenza dà senso alla vita e la sostiene, la salva provvisoriamente dalla sua meccanica debolezza (lo «scheletro tremante» che essa sostiene «come una gruccia»), la sottrae alla sconfitta e alla morte, fa sopravvivere il palpito dell’«amore».

È un canto che si affida al vento, perpetuamente in cerca di una «polvere d’oro», di un abbandono d’amore, che rischia di infrangersi sulle forme più banali del quotidiano (la «lampadina accesa» su cui si brucia e muore la «farfalla»). Vuol essere qualcosa di assolutamente vitale, una forza sorgiva che subisce in ogni momento l’insidia della rovina e della morte. Un’altra poesia (“Questa corda di vento che cammina”) sottolinea poi lo stretto intreccio tra amore e poesia, qualificandoli nel loro nesso come una sorta di «verde tramortire» («era questo mio verde tramortire»).

Questa poesia che è ragione totale di vita è sostenuta e insieme minacciata da uno «sfinimento», da quel «verde tramortire», esaltante e deprimente nello stesso tempo: ma questo suo abbandono «totale», questa modalità in fondo così «romantica» è segnata dal suo precipitare in un mondo slabbrato e fatiscente, dallo spazio marginale che al poetico tocca nella comunicazione corrente, dalla frammentarietà dell’esistenza cittadina e delle stesse occasioni su cui il canto viene a librarsi, oltre che dallo scontro continuo tra l’abbandono amoroso e il disagio psichico. La particolarità della voce e della presenza poetica di Alda Merini, il consenso e l’interesse che esse suscitano nella confusa situazione contemporanea sono dati proprio dall’incontro tra questa così assoluta, immediata intenzionalità poetica (quasi fuori tempo, estranea ad ogni programma di poetica, ad ogni identificazione di modelli intellettuali, ad ogni confronto con la «storia») e la sua caduta nel presente della comunicazione vuota e dei simulacri pubblicitari, in un universo senza poesia, in cui la «polvere d’oro» può essere ormai solo virtuale, plastificata, mistificata, eventualmente inquinata.

Nel flusso continuo della voce che Alda Merini fa risuonare in questo mondo in cui ogni «aura» è perduta, i testi scaturiscono dalle occasioni più varie dell’esistenza, si affacciano, si perdono, si ritrovano, restano a lungo affidati a fogli dimenticati in qualche cassetto e poi approdano a libri diversi, in cui il susseguirsi delle tracce della storia personale è inevitabilmente alterato: i diversi piani si frantumano e si scompaginano, sovrappongono tempi e situazioni.

Di testi variamente riemersi dal passato è fatta la presente raccolta, che pure ha una ben precisa caratterizzazione, nel suo sguardo diretto e indiretto verso la Puglia, sia perché gran parte delle poesie risalgono (o sono vicine) agli anni del legame con il poeta tarantino Michele Pierri e della residenza a Taranto, sia perché sono state affidate all’editore salentino Piero Manni, sia per l’implicito richiamo affettivo a Maria Corti, salentina d’adozione e a suo tempo curatrice della più essenziale raccolta della poetessa, “Vuoto d’amore” (Einaudi, 1991).
L’Unità 02.11.09