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«Il Pd non collabori. È una legge dirigista», intervista a Ignazio Marino di Roberto Ciccarelli

«Bersani saprà decidere da sé cosa fare, ma per parlare di università bisogna rivedere in maniera sostanziale l’impianto di una legge dirigista, senza fondi e che non incide sui ruoli dei professori universitari e sulla vera valutazione della ricerca».
Ignazio Marino, chirurgo e senatore Pd, pone questa condizione per il confronto con il governo sul ddl Gelmini. «Altrimenti si rischia di indebolire la funzione pubblica dell’università senza migliorarne i contenuti. Se non c’è questo presupposto, non ci può essere dialogo».

Dal ministro Gelmini giungono segnali di apertura al Pd. E’ una richiesta di cogestire la riforma, magari concendendo qualcosa durante l’iter parlamentare?
Vedremo se il governo vuole approvare la legge a maggioranza, con la fiducia oppure è disponibile ad un confronto articolo per articolo. Molto si vedrà nei decreti attuativi, ma è chiaro che non si può andare nella stessa direzione del federalismo fiscale che viene approvato senza conoscere come il governo userà le deleghe. Non scherziamo, qui stiamo parlando della trasformazione del sistema universitario del nostro paese. Se una legge organica non è stata fatta per 30 anni, non possiamo correre il rischio di andare avanti alla cieca. Dove ci ritroveremo nel 2050?

La riforma dell’università proposta dal governo è attualmente a costo zero. Cosa pensa dell’idea di Tremonti di finanziarla con una parte dello scudo fiscale?
Quello dello scudo fiscale è un capitolo drammatico della storia del nostro paese. Si usa una legge, che è un’istigazione a delinquere, per finanziare la scuola e la ricerca. Ma l’anno prossimo come la finanziamo l’università. Facciamo uno scudo fiscale all’anno? Diciamo agli evasori che possono fare tutto quello che gli pare? A leggere il provvedimento mi sembra chiaro che il mondo accademico e il ministero dell’istruzione e dell’università vengono nei fatti commissariati dal ministro dell’economia. Se lei fa una ricerca per parole chiave nel ddl, vedrà ripetuta per 9 volte il ministero dell’economia, per 11 la frase «senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica», e solo 1 volta il Consiglio universitario Nazionale. È un’analisi grossolana, ma che fa capire in che direzione vuole andare il governo. Di fatto, riduce l’università ad un istituto di formazione superiore che produce didattica e non ricerca scientifica.

All’incertezza dei finanziamenti, si aggiungono i tagli al fondo di finanziamento ordinario dell’università…
Il sapere è un’area strategica per il nostro paese, il che non significa che si può spendere tutto quello che si vuole. Il sistema deve essere rifinanziato come è successo negli altri paesi europei di destra come la Francia o la Germania, per non parlare degli Stati Uniti, dove gli investimenti in ricerca e in sviluppo sono stati raddoppiati. Invece noi tagliamo e siamo scesi da un già drammatico 1,1 per cento allo 0,9 attuale. È la prima volta che succede. Quella del governo è una visione estremamente miope. Non capisce che un paese come il nostro non può superare la crisi e competere con le altre democrazie occidentali se non investe in questi settori.

La riforma prevede l’allargamento dei Cda a soggetti esterni all’università. Non si rischia una privatizzazione strisciante?
Esatto. Il ddl parla di «almeno» un 40 per cento. Potrebbero essere anche il 90 per cento. Sono sempre stato critico rispetto al mondo accademico, ma qui bisogna riconoscere che si svuota il ruolo del senato accademico a favore del consiglio di amministrazione. Il Cda è scelto e nominato dal rettore che certo resta in carica otto anni, ma diventa un monarca. Di fatto il potere dei professori universitari scompare.

Cosa pensa del sistema di valutazione proposto?
L’Italia è l’unico paese occidentale nel quale i professori ordinari ed associati rimangono in ruolo a vita a prescindere dalla valutazione sulla didattica e sulla ricerca. È vero che il Ddl introduce meccanismi più o meno premianti dal punto di vista salariale. Stando però ai dati del 2007 i 19625 professori ordinari e i 18733 professori associati non sono mai stati valutati ad oggi. La valutazione esiste solo per chi entra in ruolo, per i ricercatori che si trovano davanti ad un nuovo periodo di precariato di 6 anni. Mi sembra che la discrezionalità accademica che il governo vuole combattere resti tale e quale.

Come giudica il primo anno e mezzo della Gelmini?
Quello che pensa il ministro Gelmini lo sappiamo dai fatti e non dalle sue ipotesi di riforma. Nel 2007 introdussi in finanziaria un meccanismo per cui 82 milioni di euro per la ricerca dei giovani dovevano essere attribuiti da una commissione di scienziati sotto i 40 anni scelta sulla base di criteri di merito. Nel dicembre 2008 la Gelmini ha cambiato queste norme e ha imposto che la commissione fosse di nomina ministeriale e che la selezione si facesse con le audizioni. Ancora una volta il ministero ha usato la sua discrezionalità contro il metodo del peer review, cioè il giudizio tra i pari, utilizzato nel resto del mondo. L’adozione di questo metodo nella valutazione è un altro presupposto per far partire il dialogo con il governo. Eliminarlo significa negare l’uguaglianza nella selezione delle persone che riteniamo migliori.

A questo bisogna aggiungere che, allo stato dei fatti, importanti progetti di ricerca ministeriali, come i firb e prin, sono bloccati…
Questo ci dice chiaramente che l’impostazione del governo non è tarata su criteri scientifici, ma su quelli economici. Questo è in fondo il loro approccio rispetto al mondo universitario.

dal Manifesto, 1.11.2009

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La riforma Gelmini dell’università: meno risorse e meno autonomia
CGIL, risposte in gran parte inadeguate all’esigenza di una profonda riforma del sistema universitario italiano

Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri affronta diverse materie:

* Organizzazione del sistema universitario: indica criteri prescrittivi per la modifica degli statuti degli Atenei, da realizzarsi entro sei mesi; potenzia le prerogative del Rettore e affida le funzioni di programmazione strategica ad un Consiglio di Amministrazione (11 membri non elettivi di cui 5 esterni) dotato anche di rilevanti poteri su organici e selezione dei docenti. Sono abolite le Facoltà e rafforzati i Dipartimenti, gli attuali Consigli di Facoltà sono sostituiti con una struttura estremamente ristretta di Dipartimenti affini.
* Delega legislativa in materia di qualità ed efficienza del sistema universitario: contiene la delega al Governo a riordinare una quantità di materie tra cui:

1. l’istituzione di un Fondo per il merito gestito direttamente dal Ministero dell’Economia (al di fuori dei canali del diritto allo studio), le stesse norme sul diritto allo studio, i meccanismi di contabilità (sono previsti il commissariamento degli Atenei in caso di dissesto e rigidi controlli di spesa che si spingono fino a determinare il tetto della contrattazione integrativa d’Ateneo);
2. i meccanismi premiali nell’attribuzione dei finanziamenti;
3. la disciplina dell’orario docente (pari a 1500 ore di impegno complessivo annuo);
4. la valutazione periodica ai fini dell’attribuzione degli scatti economici;
5. la rimodulazione dei trattamenti economici dei docenti (prevedendo per cominciare che gli scatti biennali diventano triennali), ecc.

* Norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernente il reclutamento: definisce

1. la riduzione dei Settori scientifico-disciplinari (su cui il CUN sta lavorando da lungo tempo);
2. l’istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale come pre-requisito per i concorsi e gli avanzamenti di carriera;
3. nuove norme sul reclutamento basate su concorsi interamente locali dei singoli Atenei;
4. nuove discipline per gli assegni di ricerca, per i contratti di insegnamento, per i ricercatori.

Siamo di fronte ad un provvedimento di ampia portata che cerca di rispondere all’esigenza di una profonda riforma del sistema universitario italiano, ma le risposte in esso contenute sono in gran parte inadeguate e pericolose.

Il nuovo modello di governance prevede una struttura fortemente gerarchizzata, il potere è concentrato negli organi esecutivi, mentre sono indeboliti gli organi elettivi, la partecipazione democratica e l’autonomia universitaria. Anche scelte condivisibili come l’abolizione delle Facoltà e il potenziamento delle prerogative dei Dipartimenti sono accompagnate da nuove strutture verticistiche per il coordinamento dei corsi di studio e degli studenti.

Gli interventi sul personale non prevedono il riconoscimento dei ricercatori come terza fascia docente, ma si accelera l’applicazione della messa ad esaurimento. Da oggi non saranno più possibili assunzioni di ricercatori a tempo indeterminato; la terza fascia diventa solo un canale di reclutamento a tempo determinato. Gli attuali ricercatori avranno, prevedibilmente, scarsissime probabilità di uscire dal recinto della terza fascia, vista la scarsità di risorse, ed il fatto che i futuri associati proverranno direttamente dal ruolo di ricercatore a tempo determinato. Non c’è alcuna risposta ai temi del precariato che, anzi, vede la propria condizione sempre più instabile e soggetta a ricatto.

Le nuove forme di reclutamento (abilitazione nazionale di durata quadriennale e concorsi di Ateneo) lasciano aperti spazi ai rischi di abusi attraverso la chiamata diretta di soggetti di “chiara fama” e a elementi di discrezionalità degli organi di governo rispetto ai due possibili percorsi alternativi di carriera (scorrimento interno per chiamata diretta o concorso di valutazione comparata presso un’altra sede universitaria).

Per le materie che riguardano direttamente il personale non è prevista alcuna forma di contrattazione, né vi è stato in questi mesi confronto con le organizzazioni sindacali.

L’intero decreto appare pervaso dalla logica della riduzione dei costi, dalla necessità di tagliare, in coerenza con la L. 133, e da una meticolosa messa sotto sorveglianza del sistema universitario da parte dei Ministeri, in particolare quello dell’Economia (persino le borse di studio per gli studenti più meritevoli saranno gestite dal Ministero dell’Economia). Senza un aumento degli investimenti, anche nuovi meccanismi di distribuzione premiale delle risorse non riusciranno a promuovere il sistema, perché saranno ridotti a forme residuali di riequilibrio di risorse tra università.

Contro questo provvedimento è indispensabile rilanciare un’ampia mobilitazione che costringa il Governo a ritirare i tagli, investire nell’Università per raggiungere almeno i livelli medi europei e ad aprire un confronto vero sulle autentiche necessità del sistema universitario.

da www.cgil.it