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“Sono i giovani a pagare”, di Tito Boeri

«Finché ci sono io non ci saranno tagli alle pensioni». Non se n´è accorto, ma con queste parole Tremonti ha annunciato l´intenzione di terminare il suo mandato prima della fine della legislatura.
Oppure ha deciso di riformare domani, subito, il nostro mercato del lavoro. Il fatto è che la crisi sta già tagliando le pensioni. Non quelle in essere. Ma quelle di chi è entrato, meglio è rimasto in attesa di entrare nel mercato del lavoro, da quando la crisi è iniziata. Certo, non possiamo dare la colpa della crisi al governo. Ma quella di non aver fatto sin qui nulla per evitare ai giovani un futuro pensionistico grigio, anzi grigissimo, non possiamo proprio risparmiargliela. Con tutta la buona volontà.
La crisi del lavoro ha sin qui colpito quasi solo i giovani in Italia. A differenza di crisi precedenti, non c´è stato solo il congelamento delle assunzioni, comunque diminuite del 30%. Ci sono anche stati licenziamenti massicci (tra il 10 e il 15 per cento del loro numero a inizio della crisi) tra chi aveva contratti a tempo determinato, collaborazioni a progetto o partite Iva. Accade così che oggi un disoccupato su tre ha meno di 25 anni contro uno su quattro prima dell´inizio della crisi. Siamo il paese Ocse in cui il rapporto fra il tasso di disoccupazione dei giovani e il tasso di disoccupazione complessivo è più alto (più di tre volte più alto) ed è aumentato di più dall´inizio della recessione. Significa che il rischio di perdere il lavoro è diventato ancora più concentrato sui giovani. Non era un paese per giovani, il nostro. Lo sarà ancora meno se non si fa qualcosa. Non sono danni transitori quelli che stiamo facendo ai giovani, non sono danni destinati ad evaporare dopo la recessione. Diversi studi documentano che chi inizia la propria carriera con un periodo di disoccupazione (e chi non inizia del tutto pur cercando attivamente un lavoro), ha una vita lavorativa caratterizzata da frequenti periodi senza lavoro e con salari più bassi al contrario di chi non ha vissuto questa esperienza (inizialmente i salari sono fino al 20% più bassi, poi il divario si riduce al 5%, ma solo nel caso in cui non si perda nuovamente il lavoro). È, quindi, una condanna che ci si porta dietro per tutta la vita, fatta di salari più bassi, rischi più alti di perdere il posto di lavoro e anche peggiori condizioni di salute di chi il lavoro non l´ha mai perso. A questi danni bisogna poi aggiungere quello di ricevere una pensione molto più bassa al termine della propria vita lavorativa. Perché chi entra oggi nel mercato del lavoro avrà una pensione dettata dalle regole del sistema contributivo, quindi legata ai salari che ha ricevuto durante l´intero arco della vita lavorativa. E chi oggi perde un lavoro precario non si vede riconoscere i cosiddetti oneri figurativi, non c´è qualcuno, lo Stato, che gli versa i contributi mentre cerca un impiego alternativo. In altre parole, assiste impotente ad un ulteriore assottigliamento della sua pensione.
Continuare a ignorare i problemi dell´ingresso nel mercato del lavoro e non concedere l´estensione di ammortizzatori sociali e oneri figurativi ai lavoratori temporanei vuol dire quindi tagliare le pensioni del domani in modo molto consistente, contando sul fatto che le vittime di questo taglio se ne accorgeranno quando ormai sarà troppo tardi e quando i responsabili di questi tagli sono, loro sì, da tempo andati in pensione. Il nostro ministro dell´Economia si vanta spesso di avere previsto l´imprevedibile. Solo lui avrebbe avvistato il cigno nero sulle coste australiane. Gli chiediamo questa volta di vedere ciò che noi tutti vediamo: un futuro pensionistico difficilissimo per i nostri figli e di agire di conseguenza. Ci sono tre cose da fare subito. Primo riformare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro, superando il suo stridente dualismo, con innovazioni come il contratto unico a tempo indeterminato a tutele progressive, ormai condivise da ampi settori dell´opposizione e del sindacato. Secondo estendere la copertura dei nostri ammortizzatori sociali, che sono oggi i meno generosi tra i paesi dell´Ocse, tra cui figura anche la Turchia, come certificato recentemente da questa organizzazione spesso citata dal ministro dell´Economia. Terzo, mandare a tutti i lavoratori un estratto conto previdenziale che, come in Svezia, li informi su quale sarà la loro pensione futura, sulla base di proiezioni realistiche sui loro guadagni futuri. Se non lo fa, nonostante glielo sia stato chiesto da anni (e lo stesso ministro Sacconi si sia impegnato in questo senso ufficialmente all´ultima assemblea della Covip), sarà solo perché ha paura di dire agli italiani la verità sui tagli che sta operando alle loro pensioni rinunciando a riformare il mercato del lavoro.

La Repubblica, 11 novembre 2009