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“Coazione a ripetere”, di Franco Cordero

Il patologo chiama “magnifiche” cose brutte e penose. Esiste una patologia delle norme, le cui meraviglie fanno storia nell’età berlusconiana, formalmente databile dal marzo 2001 ma l’embrione sta nei lavori della famigerata Bicamerale, in pieno centrosinistra, quando pensatori d’ambo le parti ripresentano idee annotate dal Venerabile Licio Gelli nel “Piano” d’una “rinascita democratica” (tardi anni Settanta). Le ultime notizie forniscono un reperto.

L’altra mattina, martedì 10 novembre, il miglior capo del governo negli ultimi 150 anni, così autodefinitosi, visita il presidente della Camera bassa. Conversano, anzi discutono quasi due ore con punte calde perché sono antagonisti: uno è demiurgo (con le televisioni s’era allevato “un popolo”) e trasforma l’Italia su modello autocratico ignoto alla cultura politica europea (esclusi i 12 anni del Terzo Reich, mentre cadono nel conto i 23 dell’era fascista, nella quale bene o male sopravvivono residui d’una legalità statutaria, vedi l’epilogo 25 luglio 1943); l’altro, dicono, difende i resti della legalità. Frasi forti hinc inde. Perso lo scudo immunitario, B. vuol liberarsi dei giudizi pendenti: chiedeva il taglio d’un quarto alla prescrizione penale (già accorciata nel suo secondo gabinetto), più il cosiddetto “processo breve”; F. gli accorda solo quest’ultimo, irremovibile perché la prescrizione corta sarebbe un’amnistia mascherata, dannosa agl’italiani; persuaso dall’onnipresente ciambellano, B. incassa la metà del richiesto ed esce digrignando i denti. Salvo coups de main in aula, resta intatto il minimo legalitario. Così intendono l’esito alcune glosse. Tale linea parrebbe “riservatamente” condivisa dal “Quirinale” (F. Verderami, “Corriere della Sera”, 11 novembre).

Viene in mente una formula del lessico psicoanalitico, “coazione a ripetere”: il coatto ripete gesti i cui effetti pativa, convinto d’agire in situazioni nuove; o ha addirittura dimenticato quella d’allora. Fenomeni simili non sono spiegabili nella solita chiave (l’appagamento d’un desiderio inconscio), nota Freud, rilevando l’aspetto “demonico” delle relative pulsioni. Qualcosa d’analogo connota le fobie berlusconiane e quanti vi restano coinvolti. Abbiamo sotto gli occhi tre precedenti in sei anni scarsi: avendo due Camere ubbidienti, s’affattura un lodo d’immunità e la Consulta lo dichiara invalido, 20 gennaio 2004 n. 24; subisce la stessa sorte la l. 20 febbraio 2006 che aboliva l’appello del pubblico ministero, scomodo in una sua congiuntura (Corte cost. 6 febbraio 2007 n. 26); e poche settimane fa quel lodo, riacconciato, riaffonda.

La stessa sorte attende l’ultimo capolavoro dei pasticheurs, sfortunati ma se lo vogliono: il diritto ha una logica refrattaria all’imbroglio; stentano a capirlo, mentre l’ha capito l’augusto committente, infatti vuol rifondare l’intero sistema secondo massime temporibus illis vigenti nell’isola pirata Tortuga.

Vediamo i termini della questione. Non è lodevole che i processi durino in media sette anni. Le cause sono presto dette: mancano i mezzi (persone, case, macchine, denaro); e garantismi talvolta criminofili hanno sviluppato procedure labirintiche dove trovano gioco facile tecniche difensive del perditempo, vedi i famosi processi milanesi durati una decade e passa, perché lo volevano gl’interessati. Tra le idee covate dal pensatoio forzaitaliota scegliamone una: che il giudice debba acquisire quante prove le difese chiedono, fuori d’ogni filtro d’economia, pena l’annullamento della decisione emessa su materiali incompleti (secondo l’assunto difensivo); dibattimenti simili durano finché i perditempo vogliano (avevano indicato come testimoni 1500 magistrati del distretto romano, il cui esame, condotto da escussori ostruzionisti, Dio sa quanti anni riempirebbe, né hanno limiti gli estrosi quesiti peritali). Strategia costosa, non praticabile dai poveri diavoli: infatti, nasce una procedura classista; raccontava d’avere speso £. 500 miliardi in avvocati (F. Verderami, “Corriere della Sera”, 30 aprile 2004).

Ora, la durata anomala richiede rimedi. Ovvio quali siano: adeguati mezzi; e regole d’un fair play accusatorio alieno dalle furberie (cresciute rigogliosamente nel malcostume inquisitoriale). Il rimedio escogitato dagl’innovatori è sbalorditivo: impongono un massimo dei sei anni; scaduti i termini, qualunque fosse l’accusa e comunque suonino le prove nonché eventuali sentenze, il processo svanisce, chiuso dal non doversi procedere, come quando risulta un reato perseguibile a querela e quest’ultima manchi. Bella soluzione, pulita e ingegnosa. L’equivalente medico sarebbe lo sterminio eutanasico dei malati che non guariscano nei tempi prestabiliti. Discorso delirante. Tra persone assennate, l’antidoto ai giudizi lunghi non è la mannaia ma un contesto meno deficitario.

Ecco dove viene utile la formula “coazione a ripetere”. I cervelloni seminano una quarta débâcle davanti alla Corte, violando ancora quel maledetto art. 3. I profili sono multipli. Cominciamo dalla norma transitoria pro divo Berluscone: la lex superveniens vale anche nei procedimenti in corso, contro gl’incensurati, purché pendano nel primo grado; due limiti manifestamente incompatibili col predetto canone. Perché diavolo escludere i gradi ulteriori e gl’imputati nel cui record figuri un precedente magari minuscolo? Ma quando anche la novità valesse solo nei procedimenti futuri (ipotesi assurda: tutti sanno chi sia il beneficiario; gli altri vadano al diavolo), la disparità emerge dai numeri: rebus sic stantibus, il termine sarebbe rispettato in sei casi su sette; e niente giustifica la fortuna del settimo. Prendiamo Freud alla lettera: dev’esserci del demonico nella pulsione a ripetere; abbia, anzi avesse o no speso 500 miliardi in vecchie lire (se è vero, gli pesano perché ha l’aria dello spenditore parsimonioso), sèguita a battere la testa in quell’articolo.

La Repubblica, 12 novembre 2009

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“L’ossessione di uno solo”, di Concita De Gregorio

Sembra incredibile, ma in un paese dove la scuola, gli ospedali, le carceri, le montagne, le fabbriche, i giovani «flessibili», le donne, i senza carte, i pensionati, i piloni di cemento armato dei palazzi, le amministrazioni pubbliche, i progetti privati si sfarinano nella nostra quotidiana esperienza di vita cambiando il futuro in polvere di cosa si parla ogni giorno, qual è la priorità in agenda del governo, quale il tema su cui si arroventa lo scontro politico? La riforma della giustizia, più esattamente del processo: l’ossessione privata di uno solo e tutta Italia dietro a battere le mani o a dissentire. Di tutti è questo il problema più grave: che un paese come il nostro non abbia gli anticorpi per reagire, che non sappia pretendere che si separi la vicenda personale di una sola persona dal destino – culturale, economico, giuridico, politico – di una nazione intera. La notizia di giornata è il processo breve.

Dato per fatto in mattinata ha avuto qualche intoppo nel corso del pomeriggio: le norme transitorie. Il fatto è che per mettere al riparo dalla Giustizia il premier si dovrebbero buttare a mare decine e decine di procedimenti in specie quelli che riguardano le truffe ai risparmiatori e i danni ai lavoratori. Lo diceva ieri Felice Casson, ci guida oggi nell’elenco Carlo Federico Grosso: Parmalat e Cirio, Eternit, Thyssen. Cosa volete che sia. Che importanza possono avere i familiari delle vittime, i risparmiatori finiti sul lastrico, gli avvelenati. Il presidente del Consiglio ha altro in mente. Voleva che gli alleati firmassero un impegno scritto: metterlo al riparo dai processi, punto primo.

Il pover’uomo è del resto già alle prese con il caso Cosentino – nelle carte che anche oggi vi proponiamo il dettaglio del sistema di intrusione del malaffare nella politica in Campania – perché se passa il principio che un politico su cui la magistratura indaga per concorso in associazione camorristica non può fare il governatore della Campania che cosa succederebbe se per ipotesi un pentito, poniamo Spatuzza, dovesse testimoniare a Palermo che gli uomini di fiducia della mafia siedono oggi molto più in alto?

In subordine, se il processo breve non dovesse aver vita lunga, ecco che direttamente dai craxiani anni Ottanta torna Margherita Boniver che custodiva da anni la segreta speranza di ripristinare la norma «cancellata con un incredibile atto di vigliaccheria nell’ottobre del 1993 in clima di pesante intimidazione». Signore e signori riecco a voi l’immunità parlamentare: fresca di giornata, ieri, la proposta di legge costituzionale.

Preveggente, Augusto Minzolini l’aveva evocata in un suo editoriale giusto due giorni fa. Un giornalista che vede lontano. O, in alternativa, vicinissimo: le bozze prima che accadano. L’ex vicepresidente del Csm Grosso dice che la proposta di legge sul cosiddetto processo breve «piaccia o non piaccia all’onorevole Fini, ha una sola ragion d’essere: salvare il premier. I costi della prescrizione processuale sarebbero ingentissimi: centinaia e centinaia di processi rischierebbero l’estinzione per decorso dei termini, con conseguente assoluzione degli imputati». Ma è urgentissima, no? Non è forse quel che solleverebbe l’esistenza, da domattina, di ciascuno di voi?

L’Unità, 12 novembre 2009

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“«Processo breve, per salvare il premier si produrrà un disastro». Intervista a Carlo Federico Grosso”, di Ninni Andrioli

Non chiamiamola prescrizione del reato, ma questa proposta di legge, piaccia o non piaccia all’onorevole Fini, ha una sola ragion d’essere: salvare il premier». Per Carlo Federico Grosso, già vice presidente del Csm, i costi della «prescrizione processuale » decisa a Palazzo Chigi sarebbero «ingentissimi».
«Centinaia e centinaia di processi rischierebbero l’estinzione per decorso dei termini, con conseguente assoluzione degli imputati. Tra questi alcuni di quelli che riguardano Parmalat e Cirio».

Avvocato,chiudere in sei anni un processo rappresenterebbe una rivoluzione considerando i tempi biblici della macchina giudiziaria…
«In astratto, se si riuscisse a ridurre la durata dei processi si otterrebbe un risultato molto apprezzabile…».

E in concreto non sarà così?
«Un processo chiuso in sei anni passando per il primo grado, l’appello e la Cassazione? Per raggiungere effettivamente questo obiettivo servirebbero alcune condizioni che oggi mancano: la riorganizzazione del sistema giudiziario, perché si possa realmente rispettare il tempo limite che viene fissato; risorse ingenti da stanziare, e che attualmente non ci sono; aumento del personale giudiziario e para giudiziario; l’eliminazione dei presidi inutili e l’accorpamento dei tribunali; l’informatizzazione degli uffici; iniziative per rendere più rapida la macchina della giustizia. Altrimenti…».

Altrimenti?
«Se si stabiliscono i termini e si fissa la prescrizione, senza garantire al sistema giustizia la possibilità di funzionare in modo adeguato, si produce il disastro. I giudici, infatti, con tutti gli sforzi possibili, non avrebbero i mezzi materiali per concludere i processi. Si andrebbe allo sfascio, centinaia di procedimenti verrebbero inesorabilmente prescritti. Con buona pace delle parti lese e della residua fiducia dei cittadini nella giustizia. Credo che le persone responsabili della maggioranza, e soprattutto dell’opposizione, debbano fare la loro parte per scongiurare il caos».

L’opposizione ha preso le distanze. Il Partito democratico – Bersani, Pionati, Finocchiaro ecc – mette in chiaro che non si può spacciare un provvedimento salva premier per una riforma che valga per tutti…
«Mi fa molto piacere: non si può mostrare alcuna compiacenza per iniziative che, senza provvedimenti idonei di organizzazione e di legislazione, renderebbero di fatto impraticabili i nuovi tempi stabiliti per la durata dei processi. Su questi piani non si possono trovare intese per una riforma seria e condivisa della giustizia».

Qualche esempio di processi che rischierebbero di non concludersi?
«Quelli Parmalat per aggiotaggio che si celebrano in primo grado davanti alla seconda sezione penale del tribunale di Milano e che andrebbero prescritti, con migliaia di persone offese che attendono giustizia. Ma potrebbero essere a rischio anche i processi di Parma. Si tratterà di vedere come si specificherà la norma nel progetto di legge che verrà depositato in Senato. Ma penso anche ai procedimenti per diffamazione. Gli esempi da fare sarebbero molti…».

La riforma, infatti, dovrebbe valere anche per il passato, non solo per i processi futuri…
«Condizione imprescindibile dovrebbe essere che le nuove norme valgano solo per il futuro, per quando – cioè – si arriverà a definire leggi e condizioni materiali capaci di rendere possibile la celebrazione dei processi in tempi ragionevoli. Per salvare il premier dalle vicende giudiziarie che lo riguardano, al contrario, si penalizzano gli altri cittadini. Altro che rispetto del principio di uguaglianza di fronte alla legge…».

Il limite dei sei anni varrebbe soltanto per i procedimenti che riguardano gli imputati incensurati, a quanto pare…
«Non capisco perché una norma che dovrebbe servire a velocizzare i processi dovrebbe distinguere chi è incensurato da chi non lo è. L’accertamento processuale della verità non è un premio. Se si vuole introdurre una regola di efficienza questa dovrebbe avere valore generale».

Il vice presidente, Nicola Mancino, annuncia che Il Csm darà un parere sul disegno di legge per il processo breve, “anche se non richiesto”. Il Pdl Quagliariello, al contrario, rilancia la disciplina dei pareri. Il Consiglio, afferma, potrà darli solo su richiesta del ministro Guardasigilli…«Quando ero impegnato a Palazzo dei Marescialli non capivo la contrarietà di molti per i pareri del Csm che, tra l’altro, non sono vincolanti né per il Parlamento né per il governo. Qual è il problema? Si ritengono inutili le indicazioni di giuristi qualificati che ragionano su una riforma? Se la politica non li vuole tenere in conto faccia pure, ma perché limitare l’attività del Consiglio?».

Forse perché un parere negativo su un disegno di legge fa rumore e imbarazza il governo.«Ecco, appunto: imbarazza è la parola giusta».

L’Unità, 12 novembre 2009