economia

“La finanza, i governi e la fame nel mondo”, di Luciano Gallino

Nel mondo gli individui che patiscono la fame hanno superato il miliardo, quando appena due anni fa erano 850 milioni. Volendo trovare un merito alla Fao, riunitasi a Roma per discutere di sicurezza alimentare, si può dire che nel 2007 aveva visto giusto, quando affermò che in seguito alla crisi finanziaria oltre 100 milioni di individui avrebbero presto raggiunto le file di quelli che ogni mattina si chiedono se troveranno qualcosa da mangiare prima di notte. Ma a parte questa piccola soddisfazione, il vertice romano ha dimostrato quanto siano impotenti le organizzazioni umanitarie come la Fao nei confronti dei governi del mondo. A loro degli affamati importa poco: votano di rado, e sono dei pessimi consumatori.
Il gran numero di affamati non dipende da una scarsa disponibilità di cibo, bensì dalla povertà. Per più di mille milioni di persone il cibo è una risorsa inaccessibile perché il loro reddito non basta a comprare le 2.500 calorie giornaliere necessarie. I governi del mondo, chi più chi meno, hanno direttamente contribuito ad accrescere la inaccessibilità del cibo sia con le politiche agricole e commerciali di lungo periodo, sia con quelle finanziarie degli ultimi anni. Un passo decisivo in tale direzione è stato compiuto giusto nove anni fa. Pochi giorni prima del Natale 2000 il presidente Clinton firmava una legge sulla Modernizzazione dei Derivati nel settore delle Merci – incluse le derrate alimentari. La legge sottraeva quasi totalmente i prodotti finanziari derivati, ivi compresi i contratti a termine o futures, al controllo delle commissioni competenti, e apriva la porta alla proliferazione forsennata dei derivati scambiati al di fuori delle borse. Il loro valore nominale ha superato nel 2008 i 700 trilioni di dollari – dodici volte il Pil del mondo.
A inizio 2006 la valanga dei derivati non regolati si è abbattuta sulle derrate alimentari. Fondi comuni di investimento, fondi pensione, fondi protettivi (hedge funds) e altri investitori istituzionali in cerca di maggiori rendimenti hanno investito centinaia di miliardi di dollari in derivati che hanno come sottostante derrate alimentari, facendo crescere il valore di questi titoli. Con due risultati. Il primo è stato un enorme aumento dei prezzi internazionali di riso, grano, mais, soia, tra il 2006 e il 2008, poiché il valore dei derivati serve in genere da riferimento per i prezzi sui mercati alimentari. Dopo il picco dei primi mesi del 2008, i prezzi degli alimenti di base sono alquanto diminuiti, ma restano più alti del 30-100 per cento rispetto al 2006; né sono prevedibili per i prossimi anni altre apprezzabili riduzioni. Un altro risultato va visto nella ridistribuzione del potere tra i produttori e consumatori di derrate alimentari e le istituzioni finanziarie. Un rapporto dell´americano Istituto per l´Agricoltura e il Commercio, a marzo 2008 due della maggiori banche d´affari, Goldman Sachs e Morgan Stanley, avevano in portafoglio contratti a termine o futures per un totale di 1,5 miliardi di staia di grano (lo staio, o bushel, vale circa 36 litri e si usa di solito per misurare le granaglie). Nessun produttore o mercante del mondo ha mai avuto nei suoi silos una simile quantità di grano.
Pertanto, se i governi volessero davvero combattere la fame nel mondo, avrebbero a disposizione uno strumento semplice ed efficace. Basterebbe vietare l´emissione e la circolazione al di fuori delle borse di derivati che hanno come sottostante alimenti di base. È quasi certo che in breve tempo i prezzi di questi ultimi scenderebbero di qualche punto, e parecchi milioni di persone in più riuscirebbero a sfamarsi. Infatti, per ogni punto percentuale in più o in meno del prezzo degli alimenti base, qualche milione di persone esce dal rango degli affamati, oppure vi entra.
Allo scopo di ridurre del 50 per cento il numero di affamati entro il 2015, hanno detto i dirigenti Fao, occorrerebbero 44 miliardi di dollari l´anno. Né lo scopo né la cifra costituiscono una novità. Il primo fu enunciato a Roma nel 1996 nel Summit Alimentare Mondiale promosso dalla stessa Fao. Nel 2000 esso divenne parte degli Scopi di Sviluppo del Millennio varati in gran pompa dalle Nazioni Unite e sottoscritti da 190 paesi. Nel 2003 sempre la Fao propose un Programma Anti-Fame a doppio binario che andava nella stessa direzione. Arrivati al 2009, è ormai evidente che sarà impossibile ridurre della metà gli affamati entro il 2015 in vaste aree del pianeta che comprendono Africa Sub-sahariana, Asia meridionale, America Latina e Caraibi, più la parte asiatica della Federazione Russa.
Il problema, naturalmente sono i soldi. Dieci più dieci meno, la cifra di 44 miliardi l´anno circola anch´essa da almeno un decennio. Dovrebbero fornirli i paesi più sviluppati. Nei summit precedenti essi hanno fatto finta di non sentire, o formulato promesse che non si sognavano nemmeno di mantenere. Durante l´ultimo summit romano hanno fatto finalmente chiarezza: non verseranno neanche un dollaro. Ci sono altre priorità. E qui, ammesso che la parola conservi ancora il significato di comportamento che suscita sdegno, siamo veramente allo scandalo. Perché 44 miliardi rappresentano appena lo 0,36 per cento, ossia un terzo di un punto percentuale della somma che i governi di Usa, Ue, Giappone e alcuni altri hanno investito in meno di due anni per salvare dal fallimento le loro istituzioni finanziarie.
Secondo stime dell´Imf che risalgono all´agosto scorso, e quindi dovranno essere quasi certamente riviste al rialzo, i paesi del G-20 hanno infatti già speso, o si sono impegnati a spendere entro il 2011, circa 12 trilioni di dollari per far fronte ai guasti della crisi finanziaria. La cifra comprende iniezioni dirette nel capitale delle banche e di società industriali, acquisto di titoli invendibili sul mercato, sostegni alla liquidità e garanzie sul debito. Non si tratta solo di denaro dei contribuenti; in buona parte si tratta anche di denaro creato dal nulla dalle banche centrali. Le ragioni adducibili per salvare le istituzioni finanziarie sono molteplici e (quasi) tutte fondate. Ma che un sistema economico il quale trova o crea in meno di due anni 12 trilioni di dollari per le proprie finanze, per affermare poi al vertice di Roma che non dispone di un duecentosettantaduesimo (1/272) di detta somma all´anno per porre al riparo dalla fame un miliardo di persone, induce a pensare che da qualche parte esso abbia qualcosa di profondamente sbagliato.

La Repubblica, 20 novembre 2009