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“Nessun italiano nella classe dei piccoli sikh”, di Bruno Ventavoli

Se non fosse per quella pianura che s’imbeve di nebbia, la scuola colorata potrebbe stare in India. Tutti i bambini di 3-4 anni sono sikh. In mezzo c’è una maestra biondissima, che spiega cos’è il sole, il verde, e magari anche la gioia, quel calore che ci si sente dentro quando ridi, e che ha tante lingue per dirla. Nella classe vicina, accanto ad altri stranieri, si torna ai più abituali Paolo, Maria, Antonio. Siamo in un asilo per l’infanzia, a Luzzara (Reggio Emilia), dove gli scolaretti reggiani sono in netta minoranza. Quattordici su ventinove. E proprio per questo sono finiti in una classe a parte su richiesta specifica dei genitori smarriti, minoranza. Come in un apartheid all’incontrario. Poi si sono infuriati gli stranieri, e hanno organizzato una manifestazione davanti ai cancelli, con uno sciopero della frequenza scolastica durata una settimana, perché si sono sentiti loro i diversi, gli esclusi. Ma in questa zona d’antica civiltà, governata da sempre dal centrosinistra (anche se incalza la Lega), stona parlare di muri etnici. Siamo semplicemente in un avamposto, un esperimento vivente della nuova Italia che muta. E che cerca di affrontare pragmaticamente l’aumento esponenziale degli scolari extracomunitari.
«Gli italiani mi hanno chiesto di mettere i figli tutti insieme in una classe altrimenti li avrebbero spostati in un asilo privato. Non avevo scelta. Dovevo garantire i loro diritti, quelli degli stranieri, e la qualità dell’insegnamento». Spiega Roberto Ferrari, dirigente scolastico, quasi quattro decenni di esperienza. Ma ora nessuno teme più razzismi. Padri col turbante, mamme con sari colorati, cinesi, vengono a prelevare i figli a mezzogiorno (non li lasciano alla mensa perché preferiscono risparmiare sul ticket) e non dicono che bene. «Ottime maestre». «Bella scuola». «Bambini contenti». Lo stesso pensano la famiglie italiane, che prelevano i pargoletti qualche ora dopo.
Il paventato «ghetto», visto da vicino, è solo parziale, fittizio. L’italiano si studia separatamente qualche ora, per colmare le lacune. Ma quando c’è da giocare, cantare, disegnare, i bambini si mescolano. Assurdo sarebbe insegnare a impiastricciare i colori sulla carta e poi separarli sulla pelle. Ma insensato sarebbe anche non prevedere binari parzialmente diversi per l’insegnamento primario. I figli degli immigrati, pur essendo nati quasi tutti in Italia, hanno una conoscenza quasi nulla della lingua. Persino i cartoni, continuano a guardarli, con la parabola, nella lingua degli avi.
«Con un 10% di stranieri in classe tutto funziona. Al 20% i problemi si contengono. Oltre il 40% si rischia la crisi, la paralisi del sistema. A pochi chilometri da qui in una scuola si è all’80%». Continua Ferrari. Cita dati, sfoglia tabelle con i test degli allievi. E spiega che ormai questa situazione è sempre più diffusa nel nostro Paese. Nelle grandi città le percentuali si diluiscono, ma nei piccoli centri della provincia operosa, come Luzzara che pullula di industrie e di stalle per il parmigiano, i figli di stranieri sono in netta maggioranza, con il loro bagaglio di cultura, di tradizione, con la loro babele di lingue.
A Luzzara, un po’ separati e un po’ uniti, si studia a stare insieme. E’ uno dei tanti laboratori sul campo, dove s’inventano protocolli provando, sparigliando come nello scopone, guardando alla realtà con l’occhio sghembo di Zavattini che da queste parti c’era nato. Insieme i piccoli imparano a giocare, a parlarsi in una lingua comune, a riconoscere gli odori dell’altro («un bambino proveniente dal Pakistan – ricorda una maestra – diceva che gli italiani sapevano di morte perché non avevano odori, mentre gli oli, le essenze che usano le sue compagne sono forti e inusuali»), a chiamarsi per nome, a capire come funziona il Paese nel quale cresceranno entrambi («nelle scuole elementari è fondamentale l’insegnamento dell’educazione civica, della costituzione italiana», continua Ferrari).
Dal risultato di esperimenti come questo dipende il futuro del nostro Paese multietnico. Lo sanno bene le maestre. Vedendo il loro fervore, persino Brunetta si placherebbe. Sono arrivate dall’università studiando Propp o Rodari. Si trovano in una scuola che rischia di sbandare e certe volte non sanno nemmeno come si legge correttamente il nome dei loro allievi. Chiedono formazione, docenti di sostegno, mediatori, idee, per l’insegnamento che ormai è multiculturale. Non si lamentano, e vanno avanti, colorando fogli e inventando filastrocche, e nemmeno troppo pagate. «Martiri no, ma in trincea sì. E se nessuno interviene rischiamo di perdere molti bambini promettenti
La Stampa 22.11.09