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“Crociata di Natale”, di Chiara Saraceno

Sono gli stessi che appendono a forza grandi crocefissi nei luoghi pubblici. Che dicono che il crocefisso è simbolo della identità italiana, da loro per altro sbeffeggiata ogni pié sospinto, salvo quando devono contrapporla ai “brutti, sporchi stranieri”, specie se “abbronzati”. Che rivendicano il cattolicesimo, per altro da loro identificato con il cristianesimo tout court, come parte integrante del Dna italiano, anche se poi si inventano i riti paganeggianti per il dio Po. Sono loro che vogliono far passare una norma (il processo breve) in cui si codifica che la legge non è uguale per tutti e soprattutto non per gli immigrati, specie i più vulnerabili. E che in nome di tutto questo proclamano la pulizia etnica proprio nei giorni di Natale, per non turbare la tranquillità delle buone, cattoliche, operose, bianche popolazioni autoctone. Succede a Coccaglio, profondo Nord, ma potrebbe succedere anche da altre parti. Probabilmente molti altri sindaci ci stanno pensando e molti cittadini di altri comuni invidiano quelli di Coccaglio, con un sindaco così deciso.
La questione non è, ovviamente, il contrasto alla immigrazione clandestina. Anche se ci si può interrogare sul fatto che molti immigrati regolari sono a rischio di diventare clandestini solo perché perdono il lavoro e con questo il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno. Ed altri rimangono clandestini perché i datori di lavoro li preferiscono così: perché possono pagarli meno e licenziarli quando non serve. La questione è il cortocircuito insensato tra evocazione della religione e del più drammatico simbolo religioso che ci sia da un lato, caccia al diverso e allo straniero, soprattutto se povero, dall´altro. Nel grande sventolare di crocifissi e discorsi sulla identità italiana come identità eminentemente cristiana è passata in questi anni una cultura della intolleranza e della aggressione al diverso che richiama altri foschi periodi della storia in cui il crocefisso e la religione erano branditi come arma da guerra, anche interreligiosa. Il riferimento alla religione cristiana e soprattutto al suo simbolo fondativo, la croce, ha perso del tutto il messaggio di apertura al di là delle appartenenze nazionali, familiari, etniche, di amore per l´altro portato fino al sacrificio di sé. Si rovescia piuttosto in segno di separazione e di pretesa superiorità che giustifica ogni sopraffazione. La giustificazione di questa nuova crociata paesana con il Natale, ovvero con l´evento che nel resoconto evangelico segna l´inizio della vicenda che deve necessariamente portare al sacrificio della croce, aggiunge solo un più di grottesco ad un fenomeno che ha una ben più vasta portata e che deve interrogare tutti, in primis i cattolici e le gerarchie ecclesiastiche. Come spiegarsi che un paese che si dichiara cattolico a stragrande maggioranza e dove l´insegnamento della religione cattolica nelle scuole raggiunge la stragrande maggioranza dei ragazzi è un paese dove non solo l´incultura religiosa è la norma, ma dove l´appartenenza religiosa può essere utilizzata nel discorso pubblico (anche) per motivare i comportamenti più aggressivi, violenti, contrari ad ogni più elementare principio di carità. Come possono i cattolici accettare che il loro simbolo religioso per eccellenza possa essere identificato con una cosa così limitata, contingente, oltre che controversa e non priva di ombre storiche, quale è una singola identità nazionale, e addirittura come arma di esclusione? Come può la gerarchia cattolica, in nome della real politik, accettare come suoi difensori coloro che nelle parole e nei comportamenti sia privati che pubblici negano il contenuto stesso di ciò che proclamano difendere?
So bene che le religioni tutte sono state storicamente più un elemento di divisione che di unione. E troppo spesso la Chiesa cattolica si è fatta complice di dittature e di oppressioni. Questo ha allontanato molti dalla religione e spesso anche dalla domanda di fede. Ma per chi in quel messaggio religioso continua a credere, la ferita rimane aperta e si ripropone ogni volta in cui in nome della politica la Chiesa accetta compromessi che generano ingiustizia e violenza. Qualche volta, certo meno di quanto qualcuno avrebbe desiderato, ha ammesso di avere sbagliato e ha chiesto scusa. Ma si vorrebbe anche che imparasse dai propri errori, e che fosse meno sensibile alla tentazione del potere. Altrimenti si oscilla tra il severo, anche se scontato, messaggio del pontefice sulla inaccettabilità della persistenza della fame nel mondo a fronte di sprechi grandiosi, e la benevola tolleranza nella pratica quotidiana sull´uso della appartenenza religiosa a scopi di esclusione.

La Repubblica, 26 novembre 2009