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“Allo sbaraglio o dimenticati. La formazione di 22mila medici”, di Paolo Casicci

Di notte reggono da soli interi reparti, con rischi altissimi per dei tirocinanti. Di giorno restano con le mani in mano, e in pochi conseguono la specializzazione avendo accumulato la giusta esperienza.
È un quadro con troppe ombre quello che emerge dall’inchiesta di Federspecializzandi, la sigla più rappresentativa dei 22 mila iscritti a una scuola di medicina post-laurea. Da Trieste a Palermo, il cahier de doléances dei futuri chirurghi, radiologi, anestesisti, oncologi…, è fittissimo. Regolamenti disattesi, attività didattica insufficiente, scarsa attenzione da parte dei tutor, gli strutturati che dovrebbero seguirli da vicino. E soprattutto poche occasioni per svolgere le attività cliniche, se non da soli e con enormi responsabilità.

“Ma il vero paradosso” spiega il segretario dell’associazione, Domenico Montemurro, “è che si impara poco lavorando tantissimo: il 46% dei giovani medici dichiara di passare in corsia tra le 50 e le 70 ore alla settimana, quando il contratto ne prevede in tutto 38 tra teoria e pratica”.

Il ricorso ai tirocinanti è massiccio soprattutto di notte e nei giorni festivi, quando gli strutturati abbandonano la corsia e diventano reperibili. Così, il 64% dei giovani medici si trova a svolgere servizio di guardia in autonomia, il 65% a fornire prestazioni in ambulatorio (dove i pazienti, che hanno pagato il ticket, credono di avere di fronte uno strutturato) e quasi uno su due a scegliere se ricoverare o no un utente del pronto soccorso. Tutte decisioni per le quali bisognerebbe consultare il tutor, che però in quasi metà dei casi è assente o, se c’è, dà un apporto “insufficiente” per il 22% degli intervistati e “scarso” per il 19%.

A questo surplus di responsabilità non corrisponde una formazione adeguata. La vera emergenza è nell’area chirurgica: la metà degli intervistati completa il ciclo di studi senza effettuare un solo intervento di alta chirurgia (nel 37% dei casi nemmeno come secondo operatore). In sala operatoria si lasciano effettuare ai giovani medici solo interventi considerati minori. “Sette allievi chirurghi su dieci bocciano l’attività pratica” spiega Montemurro. Prendere in mano un bisturi può diventare un privilegio, ma rischioso, visto che nell’80% dei casi non esistono percorsi graduali di apprendimento delle tecniche di base. Né risultano diffusi simulatori (pelvic trainer, vascular intervention simulator…) decisivi per la formazione. Oltre la metà dei tirocinanti, e non solo quelli dell’area chirurgica, non disponne neanche del log-book, il taccuino previsto dal contratto su cui annotare gli interventi e le prestazioni svolti, fissati dalle tabelle ministeriali. E se il registro esiste, è usato solo in un caso su quattro. Quanto alle prestazioni, il 55% degli intervistati dichiara di non svolgere tutte quelle tipiche della disciplina studiata, nel 37% dei casi perché gli è stato impedito, nel 30% perché la struttura non ha i requisiti necessari.

Non stupisce, allora, che alla domanda “ti riscriveresti alla stessa scuola di specializzazione”, la risposta più frequente è “sì, ma in un altro ateneo”. Qualche nota positiva c’è. Il 66 per cento delle strutture permette di completare la formazione in altre sedi convenzionate, anche private, alle quali molti si rivolgono per fare esperienza su macchinari all’avanguardia. Quasi otto scuole su dieci consentono, poi, di completare il ciclo di studi all’estero. Due aspetti, questi ultimi, che potrebbero però rivelarsi un boomerang per la sanità pubblica del futuro, con le cliniche private destinate ad assorbire i giovani più preparati, mentre quanti scelgono di restare a lavorare in un Paese straniero sono già in aumento da anni.

Intanto, Federspecializzandi chiede al ministero dell’Istruzione che il prossimo bando di concorso per l’ingresso nelle scuole sia pubblicato entro marzo 2010, e non a giugno come quest’anno.

La Repubblica, 26 novembre 2009