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“L’allarme del Quirinale”, di Massimo Giannini

A parte la ricostruzione del primo dopoguerra e il boom degli anni ’60, non si ricorda una “età dell’oro” della democrazia italiana. Ma stiamo precipitando davvero in un “tempo di ferro”, se un capo dello Stato convoca i giornalisti per manifestare la sua “profonda preoccupazione” sulle condizioni del Paese.

L’irritualità dello strappo procedurale è direttamente proporzionato alla gravità del conflitto istituzionale. In molti, nel centrodestra, cercano ora di piegare secondo convenienza le parole di Giorgio Napolitano. Di dimostrare che quel suo appello a fermare “la spirale della drammatizzazione” sia rivolto esclusivamente ai magistrati. Che quel suo richiamo “all’autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche” indirizzato a “quanti appartengono all’istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione” sia una messa in mora per l’intera categoria dei “giudici comunisti”. Mentono, i corrivi esegeti del presidente della Repubblica. Accecati dall’odio che il premier continua copiosamente a produrre e a riversare non solo contro le “toghe eversive”, ma contro tutte le istituzioni di garanzia, non vedono (o fingono di non vedere) una verità scomoda che nasce dalla pura e semplice logica politica.

L’inusuale “messaggio alla nazione” lanciato ieri da Napolitano attraverso la stampa è soprattutto una risposta alla farneticante “risoluzione strategica” lanciata l’altroieri da Berlusconi attraverso l’Ufficio di presidenza del Pdl. Coerenti con la fase, che se possibile esige l’ulteriore estremizzazione del “berlusconismo da combattimento”, la riunione di quell’organismo di partito, e il comunicato che ne sintetizza i “lavori”, rappresentano un atto da “consiglio di guerra”.
Riflettono il passaggio dallo “stato di eccezione” (che richiede il varo immediato dell’ennesima legge ad personam sul processo breve) allo “stato di assedio” (che impone una reazione violenta e irriducibile contro tutti i “nemici”, interni ed esterni). In quella riunione, e in quel comunicato, si lascia trapelare l’immagine di una “guerra civile” (salvo abbozzare una sedicente smentita, a danno ormai compiuto). Si parla di una magistratura che ha “sovvertito” l’ordine dei poteri costituzionali, ha intaccato “la natura stessa della democrazia”, e ormai, forte di un “peso abnorme” che soverchia “la sovranità popolare”, ha come obiettivo manifesto quello di “rovesciare il governo”.

Con una drammatica escalation dei contenuti e dei toni, il presidente del Consiglio offre agli italiani la rappresentazione di Palazzo Chigi come il suo personale “Palazzo d’Inverno”. Gli offre la narrazione, manipolata e artefatta, di un “assalto” che non c’è. Ma che gli serve per uscire dall’angolo, e per partire al contrattacco. Per il Quirinale si tratta di una “spirale pericolosa”. Per questo, soprattutto, Napolitano sente il bisogno di spiegare ai cronisti la sua inquietudine. Lo fa chiedendo a tutti il recupero di una misura e di una responsabilità che sempre dovrebbero caratterizzare chi ha a cuore la tenuta delle istituzioni e la qualità della democrazia. Quindi, certo, anche a quei magistrati che devono evitare di ribattere colpo su colpo, attraverso tv e giornali, agli attacchi di Berlusconi.

È accaduto anche l’altroieri sera, subito dopo i lanci d’agenzia sulle conclusioni dell’ufficio di presidenza del Pdl. Ed è un errore, che non aiuta ma anzi danneggia la magistratura. Le toghe, secondo il Colle, devono rispondere attraverso le formule che la Costituzione gli offre (le istruttorie e le delibere, da discutere al plenum del Csm) e i canali che la giurisdizione gli apre (le indagini e i processi, da sveltire e da rendere più efficienti).

Ma qui siamo all’ovvio, e per molti versi al già detto. Quel che c’è di nuovo, nel discorso del Capo dello Stato, riguarda il premier. Il suo insostenibile “teorema”. Afferma che i giudici vogliono far cadere il governo: come fa a dirlo? Quali elementi di prova può portare, a supporto di questa asserita intenzione “para-golpista”? E per smontare questa suggestione irresponsabilmente alimentata dal Cavaliere, Napolitano gli rovescia contro proprio lo stesso “assioma” sul quale poggia la sua visione populista e plebiscitaria della democrazia: nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia del Parlamento e della coalizione che ha ricevuto dagli elettori il consenso per governare. È il ribaltamento, concettuale e politico, dell’essenza più profonda dell’anomalia berlusconiana: se sei l’Unto del Signore, se sei il Prescelto dal Popolo, cosa hai da temere? Non sono i “rossi”, asserragliati nella corporazione dell’Anm o trincerati nelle casematte del Pd, che possono abbatterti. Può farlo solo la tua stessa maggioranza.

Questo ha voluto dire, Napolitano. Nonostante le torsioni alle regole e gli strappi al tessuto costituzionale che il presidente del Consiglio ha azzardato in questi anni, in questi mesi, in questi giorni, in Italia la democrazia resiste, ancorché stressata e maltrattata. Come fa allora il Cavaliere a parlare di “guerra civile”? Certo, neanche il Capo dello Stato può sottovalutare i problemi che si aprirebbero, in presenza di una condanna per corruzione in atti giudiziari o di una nuova incriminazione per associazione mafiosa, per il capo del governo.

Il premier può restare ancora al suo posto? La risposta a una domanda del genere non spetta al Quirinale, né ai presidenti delle Camere, né ad altri poteri. In questi casi ci si attiene alle ordinarie garanzie costituzionali: la presunzione di innocenza, l’attesa di tre gradi di giudizio e della sentenza definitiva, passata in giudicato. Ma ci si appella anche alle sensibilità morali e politiche dei singoli: si può governare un Paese, in presenza di una condanna per aver pagato il silenzio di un testimone o in pendenza di un’eventuale coinvolgimento nell’inchiesta riaperta sulle stragi del ’93? Tutto dipende dalla stabilità del leader. E soprattutto, ancora una volta, dalla tenuta della maggioranza che lo sostiene. Se l’una o l’altra non reggono, il presidente della Repubblica non può far altro che verificare cosa accade in Parlamento.

A leggerlo bene, il messaggio che arriva dal Colle è chiarissimo. Il presidente della Repubblica vigila, e non arretra. Per usare la formula di Hans Kelsen, mai come oggi è e resta “custode e arbitro delle regole del gioco”, in un intreccio di mediazione/competizione con le altre istituzioni e nel rispetto del principio di maggioranza. È bene che Berlusconi ne tenga conto. Ed è bene che gli italiani guardino al Quirinale con fiducia e speranza. Dal “tempo di ferro” si può uscire, prima o poi.
La Repubblica 28.11.09

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Il male minore tra due vie d’uscita, di Marcello Sorgi
No, non è un normale intervento da arbitro, quello di ieri del Quirinale. Se il Presidente della Repubblica ha ritenuto di mettere nero su bianco i rischi dello scontro istituzionale tra governo e magistratura, vuol dire che la situazione è ormai al limite. E non solo perché per tutto il giorno, oltre ad alcune dubbiose anticipazioni di stampa, son continuate a circolare voci (smentite solo in serata da Palazzo Chigi) su un avviso di garanzia per Berlusconi, da parte delle procure che indagano sugli attentati mafiosi del 1993. Piuttosto, Napolitano deve essersi convinto che in entrambe le trincee – giudiziaria e politica – la fase dell’ammasso delle munizioni era conclusa, e ci si preparava a far fuoco. Ora, che a questo stiano pensando i magistrati, non è dato sapere con certezza.
Ma un certo lavorio, dal momento in cui la Corte Costituzionale ha tolto a Berlusconi la protezione del lodo Alfano, è evidente.
Cosa invece sia avvenuto nel campo di Berlusconi, è fin troppo chiaro. Nel giro di pochi giorni, Berlusconi ha ribaltato il quadro che lo vedeva assediato, isolato e inerte. La novità è che lo ha fatto, diversamente da quanto tutti – amici e nemici – si aspettavano, non ribaltando il tavolo, sollevando il popolo del centrodestra, o facendo un’altra mossa a sorpresa, come fu due anni fa il famoso salto sul predellino della Mercedes a Piazza San Babila.

Al contrario, il premier s’è mosso esclusivamente sul terreno della politica, con una serie di passi cadenzati. Primo, lo studiato e paziente silenzio con cui s’è lasciato trafiggere per giorni e giorni da Fini, anche dopo aver stipulato con lui un sofferto accordo sul «processo breve», che il presidente della Camera aveva subito rimesso in discussione. Secondo, la verifica dell’alleanza con Bossi, rinsaldata oltre ogni livello di sicurezza, con la concessione della doppia candidatura alla guida di Piemonte e Veneto. Terzo, l’oneroso armistizio con Tremonti, la cui linea economica di rigore e di chiusura a ogni ipotesi di taglio delle tasse (comprese quelle dello stesso premier), e a ogni richiesta sulle dotazioni dei ministeri, è passata, con l’avallo di Berlusconi, praticamente senza eccezioni. Quarto, una volta chiusi gli steccati, stavolta prima che i buoi si dessero alla fuga, la resa dei conti interna nel Pdl.

Siamo appunto all’ormai famoso pomeriggio di giovedì, in cui il Cavaliere, al cospetto del gruppo dirigente del Popolo della Libertà, traccia una linea netta sul tavolo, per stabilire chi è dentro e chi fuori dal partito. Di riunioni così, tanto per essere chiari, non se ne vedevano dai tempi della Prima Repubblica, quando appunto i leader dei partiti di governo, messi in difficoltà dalle correnti, gettavano in campo tutto il loro peso, per misurarsi con i contestatori interni.
vCosì, quando Berlusconi ha messo in votazione tutti i temi più controversi, compresi quelli avanzati quotidianamente da Fini e dalla sua pattuglia di dissidenti – dal processo breve alla giustizia all’immigrazione -, e quando, alla fine dei conteggi, il suo ruolo di leader è uscito confermato da un fortissimo consenso interno, tutti i presenti hanno cominciato a chiedersi quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

La strategia berlusconiana prevede due possibilità. Se le procure dovessero veramente inquisire il premier per mafia, sulla base delle accuse dei pentiti, la reazione del centrodestra sarà durissima. Il Cavaliere non lo ha detto a voce alta, per evitare che finisse sui giornali, ma la risposta potrebbe perfino arrivare a dimissioni in massa di tutti i parlamentari di maggioranza, per far sciogliere il Parlamento e arrivare a nuove elezioni politiche. Elezioni a cui si andrebbe in uno scenario da scontro istituzionale e sull’onda di una campagna in cui Berlusconi chiederebbe voti contro la magistratura che ha attaccato il governo che gode dell’appoggio della maggioranza degli elettori.

Se invece i pm scelgono di frenare, magari solo per cercare testimonianze più convincenti di quelle emerse fin qui, il premier chiamerà la sua maggioranza in Parlamento ad approvare a passo di carica, prima il processo breve, poi la riproposizione del lodo Alfano sotto forma di legge costituzionale. Anche in questo caso l’eco di questa campagna, stavolta solo parlamentare, è destinata a ripercuotersi nella corsa per le Regionali. Che in prospettiva, sondaggi alla mano, e grazie anche al riavvicinamento con Casini, il Cavaliere vede abbastanza in discesa. Delle Regioni in mano al centrosinistra, infatti, le due del Nord, Piemonte e Liguria, stando al voto delle Europee, potrebbero passare al centrodestra. Nel Lazio, dove ancora pesa lo scandalo Marrazzo, le possibilità di accordo tra Udc e Pd sono ridotte al lumicino. In più, mentre il Pdl ha in Renata Polverini una candidata forte alla carica di governatore, il centrosinistra non ha ancora fatto la sua scelta. In Puglia, le divisioni tra l’attuale governatore Vendola e il suo aspirante successore Emiliano, spingono a favore del centrodestra. E anche la Campania è incerta: ma se il Pdl piange con Cosentino, il Pd, dopo l’era Bassolino, ha ben poco da festeggiare.

Delle due strade – lo scioglimento semirivoluzionario delle Camere, con le dimissioni di massa dei parlamentari, o il proseguimento, pur tormentato, della legislatura, in cui tuttavia le Regionali rappresenterebbero l’ultimo appuntamento elettorale previsto – è evidente che il Quirinale considera la seconda il male minore. Ed è proprio per scongiurare la prima, che ieri Napolitano è entrato in scena. Il suo messaggio era rivolto al premier, per cercare di tenerlo a freno. Ai giudici, perché si tolgano dalla testa di buttare giù il governo con un avviso di garanzia. Ma sotto sotto, anche all’opposizione, che in una situazione tragica come questa non ha ancora deciso quale ruolo giocare.
La Stampa 28.11.09