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“Il lungo addio”, di Marcello Sorgi

L’ennesimo incidente di percorso tra Fini e Berlusconi non è importante solo per le frasi, non destinate ad essere rese pubbliche, uscite dalla bocca del presidente della Camera e registrate da un microfono indiscreto. Ma anche, e forse soprattutto, per il tono con cui, in confidenza, sono state pronunciate.

A parte l’anticipazione, quasi un mese prima (la registrazione è del 6 novembre), che le dichiarazioni che il pentito Gaspare Spatuzza renderà il 4 dicembre saranno «una bomba atomica» (Fini dunque per quella data era già al corrente del tenore delle future rivelazioni del mafioso), e necessitano quindi di «un riscontro» da fare «con scrupolo», e a parte la conferma del dissenso con il Cavaliere, che «confonde la leadership con la monarchia assoluta» e interpreta il consenso elettorale come «una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi autorità di garanzia e di controllo», Fini, anche privatamente, non parla più come «cofondatore» del Pdl, ma come uno che sente di non aver più nulla da condividere con Berlusconi e con il partito nato dalla fusione dell’ex An con Forza Italia.

E se è chiaro che il presidente della Camera considera quell’esperienza come se ormai non gli appartenesse, più difficile è capire quale ruolo Fini si riservi per il futuro.

Del resto non era questo l’oggetto della conversazione occasionale con il procuratore Trifuoggi, tra l’altro anche lui non tenero verso il premier, che accusa, nientemeno, di voler fare «l’imperatore romano». L’unica previsione realistica è che Fini pensi ormai a sé stesso solo come al presidente della Camera, cioè una di quelle autorità di garanzia, che hanno tra i propri doveri quello di richiamare il premier al rispetto delle regole e dei diversi ruoli istituzionali, ma ai cui interventi il presidente del Consiglio non si sente in alcun modo sottoposto, perché si ritiene comunque protetto. E li giudica, tutt’al più, come un fastidio, in forza della singolare concezione del proprio ruolo e del massiccio consenso popolare su cui può contare.

Se ne ricava che tutti gli incontri, i tentativi di mediazione, le salite e le discese da un Palazzo all’altro dei pacieri di tutte le parti, sia quelli avvenuti, sia quelli in preparazione, devono a questo punto essere valutati inutili, se non addirittura controproducenti. E di conseguenza, siccome Fini alla Camera non è solo, ma anzi coagula una discreta pattuglia di dissidenti, sono anche da considerare a rischio i prossimi appuntamenti a Montecitorio del governo, malgrado la larga maggioranza di cui ancora può godere. Si sa, in politica mai dire mai. Ma la storia dell’alleanza tra Gianfranco e Silvio, che quindici anni fa ha aperto la strada del governo alla destra, e di colpo ha cambiato la storia politica del Paese, stavolta sembra proprio finita.

La Stampa, 2 dicembre 2009

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“Insulti e ripicche nel Pdl”, di G. V.

«Tocca ora a Fini spiegare…» . Così, con queste parole pronunciate ieri sera dal portavoce del Pdl Daniele Capezzone dopo una riunione dei vertici del partito in via dell’Umiltà, si sancisce la spaccatura nel centrodestra, una divisione profonda e sanguinosa. «Nell’ultimo ufficio di presidenza del Pdl – dice Capezzone – ci siamo espressi all’unanimità sull’utilizzo dei cosiddetti “pentiti”, sull’uso politico della giustizia, sul tentativo in atto di ribaltare il risultato della ultime elezioni politiche. Quel documento per tutti noi esprime la linea di fondo del Popolo della Libertà. Tocca adesso al presidente della Camera spiegare il senso delle sue parole rese note da Repubblica tv e se con quelle ragioni è ancora d’accordo». Parole che sono state sicuramente pesate scrupolosamente, quelle di Capezzone, parole pesanti come pietre. Anche perché giungono al termine di una riunione con La Russa, Verdini e i capigruppo di Camera e Senato Cicchitto e Gasparri, riunione voluta, pare, per telefono dallo stesso Berlusconi. Il fatto che per molti esponenti della maggioranza la tenuta del governo non sia in discussione, sembrerebbe quasi dimostrare il contrario. Insomma, si parla di crisi, proprio per il fatto che la si nega. Dice Amedeo Labocetta: «Il fuorionda non porterà fuori strada il governo». E aggiunge: «Non bisogna perdere la lucidità anche perché tra 48 ore la bufera mediatica su questi temi si calmerà ed il senso di responsabilità di tutti dovrà prevalere. Se così non fosse saremmo al suicidio…». Commenta il finiano Fabio Granata: «Il fuorionda dimostra l’assoluta onestà intellettuale di Fini e la coerenza tra ciò che dice in pubblico e ciò che dice in privato. Sarei curioso di sentire qualche fuorionda del direttore del Giornale Feltri o qualche ministro del governo Berlusconi per fare un paragone tra la lealtà reciproca. Sono sicuro che Fini ne uscirebbe alla grandissima». Replica il berlusconiano Giorgio Stracquadanio: «In certi casi anche un logorroico come Granata potrebbe capire che un dignitoso silenzio è meglio di qualsiasi sciocchezza detta con l’intenzione di difendere Fini ma che si trasforma in un patetico autogol». Sembrano cadere nel vuoto le parole di Rotondi (ministro per l’Attuazione del programma): «Il governo non è assolutamente a rischio. Perché Paolo Romani rinforza: «Fini non sa cosa sia la riconoscenza. E quando si parla bisognerebbe strare un poco più attenti». Significativo il fatto che a gettare acqua sul fuoco sia Nicola Cosentino, il sottosegretario all’Economia, per il quale la procura di Napoli ha chiesto al Parlamento l’autorizzazione all’arresto (autorizzazione respinta dalla giunta della Camera): «I destini dell’Italia e della Campania – dice Cosentino – sono in mano a Spatuzza e Vassallo, due noti criminali. Questa è democrazia?».

L’Unità, 2 dicembre 2009